Il ciclismo è un genere letterario, per sua stessa natura è ciò che più si avvicina al racconto epico. Le storie di questi uomini e queste donne piegati su un manubrio curvo, impegnati a spingere ruote sottili, con l’unico conforto della forza delle loro gambe e della loro testa, sembrano esistere apposta per essere raccontate con aggettivi altisonanti, con paragoni che arrivano direttamente dalla mitologia e che sfiorano la retorica. Allo stesso tempo però, per un appassionato, seguire le gare di ciclismo può essere un’esperienza impegnativa, estenuante: una gara di ciclismo dura dalle quattro alle sei ore, per lunghi tratti gli atleti pedalano in gruppo, su strade piatte, sotto il sole; se sei fortunato e sei per strada, ti capita di attendere ore il passaggio della carovana, che poi si risolve solo in macchie sfocate; fondamentale quindi appostarsi in curva o su una salita. Può capitare che in una giornata non succeda assolutamente nulla se non negli ultimi trecento metri, quando i velocisti si lanciano verso il traguardo con gli occhi spiritati e i volti contratti in smorfie: cinque ore di agonia per tredici secondi di pura esaltazione. Forse un po’ poco. Oppure nelle corse a tappe, succede di stare in attesa per giorni dell’attacco decisivo dei corridori in lotta per la classifica generale, ma questo attacco non arriva mai. Si dice in giro che le radioline e le tattiche di squadra hanno ammazzato il ciclismo. Quest’ultimo scenario è quello dell’ultimo Giro d’Italia. Tante tappe per velocisti, tante tappe in cui la fuga di giornata dal km 0 è andata in porto, tanti giorni di attesa dell’attacco al leader della classifica Richard Carapaz, che dal canto suo si è limitato a farsi portare al traguardo dalla sua squadra, da parte degli inseguitori: Mikel Landa e Jai Hindley. L’attacco decisivo del vincitore Hindley è arrivato a circa 2 km dall’arrivo della penultima tappa. Ancora a Giro in corso erano già partiti i processi. Poi fortunatamente è arrivato il Tour de France a farci fare pace con questo sport.

L’undicesima tappa del 13 luglio ce la ricorderemo a lungo: siamo sulle Alpi, 152 km con partenza da Albertville e arrivo in cima al Col du Granon a quasi 2.500 mt di altezza dopo un’ascesa di 11 km. In mezzo le durissime scalate del Col du Telegraphe (11,9 al 7% medio per 1.566 mt) e del Galibier (17,7 al 7% medio per 2.642 mt). In quel momento la classifica generale sembra già scritta: il campione uscente Tadej Pogačar indossa la maglia gialla dalla sesta tappa del 7 luglio, dove ha vinto a Longwy. Vince ancora il giorno dopo, l’8 luglio, tagliando per primo il traguardo su una delle cime più iconiche del Tour, La Plances des belles filles, arricchita per l’occasione da un ulteriore ultimo strappo di sterrato con punte al 24% di pendenza. Qui Tadej, con un’apparente facilità vince, il Tour sembra già chiuso. Come era già successo durante l’anno prima in Francia, quando Tadej aveva preso la maglia gialla all’ottava tappa e l’aveva portata fino agli Champs Elysees: davvero sembra che Pogačar non abbia punti deboli.

Eppure, è qui che si possono cogliere, forse con il senno di poi, i primi segnali del ribaltone della settimana successiva. È vero, Pogačar vince, ma a ruota, con il fiato sul collo c’è Jonas Vingegaard, un ragazzo danese del 1996 che corre per la squadra belga Jumbo Visma e che lo scorso anno è arrivato secondo al Tour. Sia l’anno scorso che quest’anno non parte come capitano, ma come supporto al leader della squadra, Primoz Roglic. Come l’anno scorso, anche quest’anno sarà la strada a decretare il reale stato maggiore in casa Jumbo.

L’unico modo possibile per battere Pogačar, è attaccarlo in modo compatto. E proprio quel 13 luglio accade l’imponderabile. La Jumbo mette in pratica una tattica di squadra al limite della perfezione. Fin dalle prime rampe del Telegraphe, il meraviglioso Wout Van Aert e Primoz Roglic attaccano a ripetizione, Pogačar prova da solo ad andare a chiudere su tutto e su tutti e ci riesce. La situazione non cambia sul Galibier. C’è una sequenza di immagini che descrive bene il momento: Pogačar è in testa, mancano pochi chilometri allo scollinamento del Galibier. Si volta a guardare i suoi inseguitori: come un’onda minacciosa che incombe, dietro ci sono solo le maglie giallonere di Vingegaard, Roglic, Kuss e Kruijswijk. A 5 km dall’arrivo Vingegaard sferra il suo attacco decisivo e Pogačar non ha la forza di rispondere, per la prima volta il mondo assiste al crollo verticale di un atleta che sembrava invincibile. Al traguardo saranno due minuti e cinquantuno secondi il ritardo del ciclista sloveno. I dieci giorni successivi saranno un susseguirsi di attacchi di Pogačar, che ci prova in tutti modi: a cinquanta km dall’arrivo così come pochi km, in discesa e a cronometro, ma la sostanza non cambia, Jonas Vingegaard è sempre lì attaccato a ruota. Anzi è proprio lui a fare il vuoto anche nella 19° tappa da Lourdes a Houtacam, nell’ultima tappa sui Pirenei, staccando ancora Pogačar e chiudendo definitivamente il Tour. La Francia ha un nuovo re, e per gli appassionati di ciclismo nei prossimi anni ci sarà da divertirsi.

Il sogno di Hugo

Come detto, questo Giro lo ricorderemo a lungo per l’epico scontro tra Vingegaard e Pogačar. Tuttavia, il bello del ciclismo è che oltre a quelle dei grandi campioni, degli atleti per cui ci lustriamo gli occhi, offre storie straordinarie di personaggi di secondo piano, di quelli che non sono quasi mai sulla ribalta ma che quando ci arrivano brillano in maniera sfolgorante, magari anche solo per un giorno. È il caso di Hugo Houle, canadese, classe 1990. Un ciclista come ce ne sono tantissimi nel professionismo, il più classico dei gregari. Una carriera passata a lavorare per i compagni di squadra più quotati. E dal 2012 un unico obiettivo: vincere almeno una tappa in carriera per Pierrick, il fratello minore. Compagno d’infanzia di tante scorribande in bicicletta e gare di triathlon, di tante mattine passate incollati alla televisione a guardare quegli eroi su due ruote e a sognare di essere uno di loro. Poi quel sogno è rimasto sulla strada una sera di settembre del 2012. Pierrick viene investito da un automobilista ubriaco: è proprio Hugo a trovarlo senza vita. Era andato a cercarlo dopo che non lo aveva visto rientrare alla solita ora.

Hugo da quel giorno ha corso con un solo obiettivo in testa: vincere una tappa per Pierrick. Finalmente ha raggiunto l’obiettivo della sua carriera il 19 luglio, come ha ribadito subito a fine gara ai microfoni di Eurosport: «To win a race was a dream I had for my brother who dies ten years ago. I’ve work for him for years, it’s incredible. I don’t know what to say». (Vincere una tappa era un sogno che avevo per mio fratello da quando è morto dieci anni fa. Ho lavorato anni per questo. È incredibile, non so proprio cosa dire). Il palcoscenico per compiere questa impresa è il comune di Foix nel sud della Francia ai piedi dei Pirenei. È la 16° tappa, 178 km con partenza da Carcassone, la tappa che fa da preludio alla tre giorni sui Pirenei. L’ostacolo più importante sono i due Gran premi della montagna rispettivamente Il Port de Lers, 47 km dall’arrivo (salita di 11,4 km al 7% di pendenza media, scollinamento a 1.517 metri), e il Mur de Péguère, a 21 km (9,3 km al 7,9%): come dice il nome stesso un muro, salita più breve ma più esplosiva (gli ultimi 3 km sono durissimi, sempre al 11/13 % con punte tra il 16 e il 18).

Steve Bauer, direttore sportivo della Israel, intervistato a fine gara, ha rivelato che quella di Carcassone-Foix era una delle tappe che avevano individuato da provare a vincere. Per questo subito dopo il km 0, all’alba della tappa, nella fuga di giornata di ben ventinove corridori (e che raggiungerà i dieci minuti di vantaggio sul peloton) ci sono anche Hugo Houle e il compagno di squadra Michael Woods: l’obiettivo è chiaro, arrivare in fondo. Poco dopo lo scollinamento sul Port de Lers, a circa 40 km dall’arrivo, proprio Houle il corridore più inaspettato, quello con meno spunto in salita tra quelli in fuga, approfitta della selezione fatta dalle pendenze e si ritrova da solo in testa con circa venti secondi sui primi inseguitori: affronta in solitaria, faticosamente, il Mur de Péguère – grazie anche al lavoro di sentinella di Woods che “controlla” Jorgenson della Movistar.

A chi mastica ciclismo ed è abituato a vedere gli scalatori puri affrontare le salite, vedere Houle arrampicarsi sul Pereguere fa quasi tenerezza: la sua pedalata e la sua postura sulla bici trasmettono la sensazione di una fatica immane, di uno non abituato a stare lì. Eppure, si capisce altrettanto bene che a spingerlo su quella salita c’è un’altra forza, forse ultraterrena. Gli ultimi cinquecento metri sono davvero commoventi: Hugo sa di star compiendo l’impresa della vita e mentre affronta le ultime curve, già piange. Taglia il traguardo in lacrime, indicando il cielo. Tutti sanno a chi è dedicata questa vittoria.

 

foto di © A.S.O./Charly Lopez