Apre la seconda parte del quaderno “La persona al centro. Per un nuovo umanesimo” lo studio di Ariberto Acerbi che riguarda le riflessioni sulla persona di Simone Weil (1909-1943) e il loro nesso strutturale con il bene morale e con la politica. Criticando la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, Weil non intende svalutare le istanze avanzate mediante la dialettica democratica, ma, attraverso il rilievo dell’esigenza del bene espressa nei doveri e custodita negli istituti civili, antepone la cura reciproca delle persone alla rivendicazione dei diritti individuali nella costruzione della coesistenza sociale. Segue lo studio di Claudia Caneva (Pontificia Università Lateranense e Università degli Studi di Roma Tre), che confronta l’idea occidentale di “persona” con le analoghe nelle culture di Africa, India e Cina; infine, Matteo Andolfo (Scuola di Anagogia di Bologna), delinea una metafisica della persona a partire dal concetto di sapienza e pervenendo alla sua dimensione teologica.
L’opera di Simone Weil (Parigi 1909-Londra 1943) suscita una tensione di attrazione e repulsione, simile a quella che lei stessa ha colto nell’esperienza della bellezza1. La prosa, di rado argomentativa o dubitativa, rispecchia la severa virtù dell’attenzione cui legò sino all’ultimo il suo lavoro e la sua coscienza2.
Gli scritti, in larga parte abbozzi e appunti, costringono a guardare l’altezza e le dolorose asperità della condizione umana. Un pensiero impegnato nella più vigile e tenace ricerca del vero, però trascritto in asserti frammentari, spesso azzardati e contrastanti, genera un’oscillazione tra il fascino e la perplessità, inibendone una più ampia o più profonda ricezione, come lei stessa infine osservò: «Gli elogi alla mia intelligenza hanno lo scopo di eludere la domanda: “Dice il vero oppure no?”. La mia reputazione d’“intelligenza” è l’equivalente pratico dell’etichetta di folli»3. Il contributo di Weil sulla persona si potrebbe forse compendiare in queste righe, tra le sue ultime.
Le parole indispensabili
Nel periodo finale della sua vita a Londra (1942-1943), Simone Weil affrontò questioni di diritto costituzionale e di filosofia del diritto che s’imponevano al governo provvisorio di France libre, in cui lavorava. I materiali di questa riflessione, pubblicati postumi, sono l’ampio L’enracinement (il “radicamento” o “la prima radice” secondo la traduzione italiana) e i saggi raccolti negli Scritti londinesi4 (foto di copertina a p. 8). Un’intera generazione d’intellettuali era allora concentrata sul corso catastrofico degli eventi, per ritrovare il senso dell’umano e assicurarvi le istituzioni democratiche dopo la Seconda guerra mondiale5. Uno dei risultati maggiori fu la Dichiarazione universale dei diritti umani (1948), che si presenta come una «fede» in un «ideale comune», il cui riconoscimento si sarebbe dovuto promuovere anzitutto «con l’insegnamento e l’educazione», quindi con «misure progressive di carattere e internazionale»6.
Com’è noto, il personalismo s’inscrive in questo scenario. Per esempio, Maritain, che rivestì ruoli di primo piano nei lavori preparatori di tale Dichiarazione, aveva già formulato la sua concezione ispirata all’antropologia tomistica in un saggio del 1942: I diritti dell’uomo e la legge naturale7. Nel 1950, fu pubblicato un saggio di Weil risalente al periodo londinese, intitolato La personne et le sacré, in cui era criticato l’impianto basato sul primato dei diritti che poi improntò quel documento, attaccandone il caposaldo implicito: il valore assoluto della persona8. L’autrice condivideva, certo, l’istanza cui si voleva por mano: l’affermazione della dignità umana, allora così gravemente conculcata, e l’esplicitazione dei princìpi normativi che la tutelano. Tuttavia, riteneva che la situazione, in particolare la prostrazione morale della Francia occupata, richiedesse di ancorare quell’affermazione, infine l’intera vita civile, a un valore più elevato di quello evocato dalle nozioni di democrazia e diritto, e da quella correlativa di persona.
Infatti, esse mancherebbero, nell’accezione imposta dall’uso, cioè nella rivendicazione dei diritti soggettivi, dell’univocità e forza sufficienti per suscitare un’obbligazione incondizionata verso l’essere umano, soprattutto nello stato di estrema indigenza o “sventura” (malheur).
Weil avrebbe voluto porre quest’obbligazione a capo della legislazione invece di quelle. Tuttavia, essa potrebbe essere accolta solo da una coscienza spogliata dall’autoriferimento, che ne restringe l’interesse all’economia dei beni e dei rapporti di forza insistenti sull’individualità, e resasi trasparente all’istanza “soprannaturale”, ossia universale e assoluta, del bene. In tale capacità di auto-trascendimento, con l’assoggettarsi a un ordine oggettivo del mondo (quanto l’autrice designava, per l’opposizione delle rispettive note, sotto la categoria dell’“impersonale”), consisterebbe la sacralità dell’umano, ciò per cui esso può assimilarsi alla rettitudine e alla liberalità del divino9.
Vale la pena di notare come Maritain distinse il concetto d’individuo da quello di persona, riconoscendo in questa il principio di apertura universale in virtù della quale l’essere umano è immagine di Dio. L’individualità sarebbe, invece, portatrice dell’elemento materiale, il cui peso, informe e incontrastato, appare nei fenomeni dell’egoismo sociale. In tal senso, Weil sembrerebbe identificare la persona con l’individuo di Maritain (in altra sede, si potrebbe rilevare in entrambi un’ambiguità sul principio di sussistenza, costitutivo del concetto metafisico di persona)10. Un passo compatto dal saggio weiliano sopra menzionato illustra gli estremi della prospettiva descritta:
Il criterio per la scelta delle parole è facile da riconoscere e usare. Gli sventurati, sommersi dal male, aspirano al bene. Bisogna offrir loro parole che esprimano solo del bene, del bene allo stato puro. La discriminazione è facile. Le parole alle quali si può aggiungere qualcosa che sta a indicare un male, sono estranee al bene puro. Si esprime biasimo ogni volta che si dice: «Mette al primo posto la sua persona». In tal caso la persona è estranea al bene. Si può parlare di un abuso della democrazia. La democrazia è dunque estranea al bene. Il possesso di un diritto implica la possibilità di farne un uso buono o cattivo. Il diritto è perciò estraneo al bene. Viceversa, l’adempimento di un obbligo è sempre un bene, ovunque. La verità, la bellezza, la giustizia, la compassione, sono sempre dei beni, ovunque11.
L’affermazione iniziale, da cui si desume il senso del passo, è la responsabilità delle parole scelte per designare gli ideali della vita civile quali altrettanti oggetti di una “Professione di fede”, come Weil intitola l’inizio della sua Dichiarazione degli obblighi verso l’essere umano12. La situazione che motiva la serietà del compito è quella data, in circostanze simili a quelle cui Weil scriveva, dal dovere di riconoscere l’appello del bene leggibile nelle “aspirazioni degli sventurati”, identificandovi l’idea ispiratrice di una politica profondamente rinnovata. Infatti, i termini criticati (persona, democrazia, diritto) non designano dei valori incondizionati, stante la loro relatività e possibile fallacia13.
Perciò, non sono autosufficienti né abbastanza rigorosi nello stabilire il valore dell’essere umano come i contenuti più puri della coscienza (la verità, la giustizia, la bellezza), e i rispettivi sentimenti dell’obbligo e della compassione. In questi è testimoniata l’innata cognizione dell’incondizionato, cioè del bene nelle forme originarie in cui si manifesta. Proprio in questa cognizione, come accennato, Weil riconosce la radice del sacro nell’uomo, il fondamento del rispetto dovutogli, confermato attraverso l’autentico riconoscimento della sua realtà e la cura dei suoi bisogni. Di questi, la filosofa parigina presenta una fenomenologia approfondita per quelli dell’“anima”, ossia per i beni della vita psichica, morale e spirituale14.
Tutto ciò significa, da un lato, che l’innata percezione del bene, ridestata dall’esperienza del male, cioè dalla menzogna, dall’ingiustizia e dalla bruttezza, ne rivela la sacralità, poiché ne testimonia il rapporto inestirpabile, benché manifestato solo dal dolore e dal desiderio, a una realtà superiore al mondo, ossia al meccanismo dei fatti. D’altro lato, assumendo nel discorso pubblico la responsabilità delle parole esprimenti i supremi princìpi normativi, consapevoli della loro forza evocativa eppure della loro ineliminabile vaghezza, occorre che la percezione del bene soggiacente al dolore sia dichiarata a nome della moltitudine oppressa e muta.
Si sarebbe già fatto molto se, tra chi ha il compito di segnalare al pubblico delle realtà da lodare, ammirare, sperare, ricercare, domandare, qualcuno almeno decidesse, in cuor suo, di disprezzare in modo assoluto e senza eccezioni tutto ciò che non è il bene puro, la perfezione, la verità, la giustizia, l’amore15.
Weil non intende così svalutare le istanze avanzate attraverso lo strumento del diritto e della dialettica democratica, né ignora che l’affermazione di un diritto è speculare a quella di un dovere. Tuttavia, propone una prospettiva che, attraverso il rilievo dell’esigenza del bene espressa nei doveri e custodita negli istituti civili, anteponga la cura reciproca delle persone alla rivendicazione dei beni e dei diritti individuali nella costruzione della coesistenza sociale16.
Nuove istituzioni
Le considerazioni riportate potrebbero destare ammirazione per la tensione morale testimoniata con una demarcazione assiologica così netta, e tuttavia perplessità per la loro rilevanza e concreta applicabilità alla vita umana. Ora, nella parte finale del saggio che stiamo considerando, la filosofa giunge a superare l’opposizione dei valori indicati, da cui sembra sorgere questo problema, riconoscendovi invece un rapporto di dipendenza:
Le funzioni pubbliche hanno come unico significato la possibilità di fare del bene agli uomini, e coloro che le assumono con intenzioni buone vogliono diffondere del bene sui propri contemporanei; in genere, però, commettono l’errore di credere che potranno loro per primi comprare quel bene a buon mercato. Le parole della regione mediana – diritto, democrazia, persona – vengono usate in modo corretto nel loro àmbito, che è quello delle istituzioni mediane. L’ispirazione da cui prendono vita tutte le istituzioni, di cui sono una specie di proiezione, reclama un altro linguaggio […] la persona non può essere protetta contro il collettivo, e la democrazia garantita, se non grazie a una cristallizzazione, nella vita pubblica, del bene superiore, che è impersonale e non ha rapporto con alcuna forma politica17.
Con queste parole, Weil indica un fondamento del diritto e della politica, quindi anche della relativa nozione di persona, che ne trascende l’àmbito, poiché radica in una forma del bene superiore a quello esemplificato nella vita sociale, e tuttavia essenziale a esso. La sua funzione motivante, nella forma di un’ispirazione abbracciante l’intero territorio del bene (tracciato dai confini del giusto, del vero e del bello), ne illumina e ne conferma il valore. Poco oltre il passo citato, affida quest’ispirazione di fronte al rifiuto del suo contenuto (l’ingiustizia, la menzogna, la bruttezza) a un nuovo genere d’istituzioni:
Al di sopra delle istituzioni destinate a tutelare il diritto, le persone, le libertà democratiche, bisogna inventarne altre destinate a discernere e a eliminare tutto ciò che nella vita contemporanea schiaccia le anime sotto il peso dell’ingiustizia, della menzogna e della bassezza18.
In La persona e il sacro non è precisata la natura di queste istituzioni19. Soltanto, si rinvia a esse, come al compito di una nuova dottrina politica, rilevando l’eccedenza delle risorse spirituali che sono necessarie per affrontare le questioni di giustizia riguardanti l’integrità dell’essere umano ed eccedenti lo scambio e distribuzione dei beni. La percezione del limite superiore del giusto non è di per sé garantita dalla tecnica giuridica, impartita nella “Scuola del Diritto”, ma richiede una mente preparata da altre istituzioni e attraverso altri itinerari formativi.
La giustizia consiste nel vigilare affinché non sia fatto del male agli uomini. Si fa del male a un essere umano quando, nel suo intimo, egli grida: «Perché mi si fa del male?». […] L’altro grido che tanto spesso si sente: «Perché l’altro ha più di me?», si riferisce al diritto […]. Per formare gli spiriti in grado di risolvere i problemi che si pongono a questo livello, la Scuola del Diritto è sufficiente. Ma il grido: «Perché mi si fa del male?» pone dei problemi completamente diversi, per i quali è indispensabile lo spirito di verità, di giustizia e d’amore20.
Quest’ultima battuta, sullo «spirito di verità, di giustizia e d’amore», consente di stabilire un confronto con gli scritti coevi, in cui si potrebbero trovare spunti concordanti sui requisiti delle istituzioni menzionate. Inoltre, possiamo ricavarne un’indicazione di come l’esigenza della giustizia postuli, come condizione per essere accolta, l’intimo collegamento delle disposizioni morali e cognitive cui si assiste in un atto d’amore mosso da simile esigenza. Un primo aspetto dell’eccedenza indispensabile per oltrepassare la tecnica del Diritto e ancorarla al suo principio spirituale si può rinvenire in Idee essenziali per una nuova Costituzione e riguarda le qualità morali e intellettuali cui soprattutto dovrebbe essere indirizzata la formazione di coloro cui è immediatamente affidata l’amministrazione della Giustizia:
I giudici devono ricevere una formazione spirituale, intellettuale, storica, sociale, ben più che giuridica (l’àmbito strettamente giuridico deve essere mantenuto solo per questioni d’importanza limitata)21.
Nella conclusione della prima parte de La prima radice (foto di copertina in alto), in un paragrafo sul bisogno di verità, qui qualificato come «il più sacro di tutti», si possono raccogliere precisazioni sul profilo dei giudici e sul rispettivo itinerario formativo. A un certo punto, dov’è affrontata la questione sull’elemento che ne garantisce l’imparzialità, si legge:
L’unica garanzia, oltre alla loro indipendenza totale, è che essi provengano da ambienti sociali molto diversi fra loro, che per natura siano dotati di un’intelligenza ampia, chiara e precisa, e che siano formati in una scuola nella quale abbiano ricevuto un’educazione non tanto giuridica quanto spirituale e in secondo luogo intellettuale. È necessario che in quella scuola essi si abituino ad amare la verità. Non è possibile soddisfare l’esigenza di verità di un popolo se a tal fine non si riesce a trovare uomini che amino la verità22.
L’esigenza appena dichiarata trova una verifica ricorrente negli scritti di Londra col caso negativo di un giudice altezzoso, maldisposto ad ascoltare le parole stentate di un imputato. Questa situazione potrebbe essere risolta solo da uno sforzo di attenzione da parte del giudice, cioè dalla sua capacità d’immedesimazione con la miseria dell’altro. Una simile estasi dalla naturale parzialità dell’io, tesa alla percezione del vero e del giusto, è un amore “soprannaturale”, un atto libero da costrizione e scevro da interesse (come si vedrà più sotto, l’autrice utilizza a tal proposito la categoria della grazia), in cui l’intelligenza e la libertà giungono a compenetrarsi:
Mettersi al posto di un essere che ha l’anima mutilata dalla sventura, o corre il rischio di averla, vuol dire annichilire la propria anima […]. Per questo, non c’è speranza per il vagabondo in piedi davanti al magistrato […]. Solo l’azione soprannaturale della grazia trasporta un’anima, attraverso il proprio annientamento, fino a quel luogo dove si attinge quella specie di attenzione che è l’unica che consenta di essere attenti alla verità e alla sventura. È la stessa per entrambe. È un’attenzione intensa, pura, incondizionata, gratuita, generosa. E quest’attenzione è amore23.
Solo un amore puro, “folle”, introdotto nella vita sociale attraverso la germinazione dei gesti minuti in cui più si rivela l’autentica umanità (Weil cita al riguardo le immagini evangeliche del seme di senape e del lievito nella pasta), avrebbe potuto sanare la presente desolazione:
La follia d’amore non cerca di esprimersi. Ma s’irradia in modo irresistibile attraverso l’accento, il tono e i modi, attraverso tutti i pensieri, tutte le parole tutti gli atti, in ogni circostanza, senza eccezioni […]. [B]isogna pure che qualche volta ci siano dei momenti in cui, dal punto di vista della ragione terrena, soltanto la follia d’amore è ragionevole. Questi momenti non possono che essere quelli in cui, come oggi, l’umanità è diventata folle a forza di mancanza d’amore24.
Il bisogno dell’ordine
Tornando al problema sulle istituzioni necessarie per formare delle menti capaci di accogliere l’appello del bene, particolarmente di quanti sono chiamati a esercitare un’autorità pubblica, l’autrice segnala un aspetto che coinvolge un bisogno primario, carico d’implicazioni politiche: il bisogno dell’ordine, ossia di «un tessuto di relazioni sociali tale che nessuno sia costretto a violare obblighi rigorosi per adempierne altri»25. L’ordine riveste, per lei, un carattere di priorità poiché ha per oggetto tutti gli altri bisogni e rende possibile il perseguimento del bene nella compagine dei doveri in cui si esplica. Dall’ordine dipende perciò l’applicabilità del dovere. A esso si oppone un’organizzazione sociale che ostacola, anche con la violenza, l’assolvimento dei doveri o che li rende di fatto incompatibili. Weil riconosce che una totale compatibilità è più un’idea regolativa che una realtà realizzabile.
Tuttavia, rappresentando la forma esemplare di un’istituzione che rende quanto meglio possibile il compimento del bene, indica lo scopo orientativo di un’azione politica. Infine, la filosofa francese ne identifica un paradigma e un metodo nella bellezza realizzata nel mondo e nelle opere d’arte. Infatti, qui si apprende una manifestazione dell’ordine, sovrastante il meccanismo naturale. L’estremo opposto è una politica ispirantesi a quest’ultimo, come nella Germania hitleriana, dove il bene è scambiato con la necessità, cioè col prevalere della forza26.
Ritornando così a un motivo originario del platonismo, la contemplazione del Bene è la fonte cui attingere la saggezza, indispensabile per l’azione politica:
Noi amiamo la bellezza del mondo, poiché dietro di essa sentiamo la presenza di qualcosa di analogo alla saggezza che vorremmo possedere per appagare il nostro desiderio del bene27.
Nell’opera weiliana si potrebbero rintracciare un’epistemologia, un’etica e una filosofia dell’educazione fondate su tale principio. Si può, perciò, ipotizzare che le istituzioni cui Simone Weil avrebbe voluto affidare l’essere umano sono quelle che, ancora con Platone, si prendono cura della sua anima. Si può notare così la sua convergenza con gli autori della Dichiarazione universale dei diritti umani nel rilevare i presupposti spirituali di ogni costruzione giuridica e politica («una fede», un «ideale comune»), e la priorità dell’educazione perché questi siano riconosciuti.
1 Cfr S. Weil, L’attesa di Dio (1950), Rusconi, Milano 1991, p. 126.
2 Tra i profili biografici, ho trovato di notevole perspicuità: L. Adler, L’indomabile Simone Weil (2008), Jaca Book, Milano 2009. Sull’opera weiliana: cfr E. Bea Pérez, Simone Weil. La memoria
de los oprimidos