Mons. Ennio Apeciti delinea i tre capitoli fondamentali intorno a cui ruota la Nota Gestis verbisque sulla validità dei sacramenti, pubblicata il 2 febbraio 2024 dal Dicastero per la Dottrina della Fede. È l’occasione per ricordare alcune nozioni fondamentali tradizionali sui sacramenti che, purtroppo, sembrano essere state in parte obliate anche dai fedeli attuali: è Cristo, con la Chiesa, il Suo Corpo, a celebrare i sacramenti, attraverso il ministro, ordinato dal Vescovo. Tra l’ordinante e l’ordinato si crea una comunione trasmessa originariamente da Cristo stesso. Forse l’aver privilegiato l’aspetto assembleare della celebrazione dell’Eucaristia ha posto in ombra che il celebrante è il primo di tutto il popolo, di cui si fa capofila davanti all’unico vero Protagonista, il Signore Gesù. Mons. Apeciti, tra i suoi numerosi incarichi, è docente di Storia della Chiesa presso la Sezione del Seminario Arcivescovile di Milano della Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale; Responsabile dell’Ufficio delle Cause dei Santi e Delegato Arcivescovile per le Cause di beatificazione e di canonizzazione della Diocesi di Milano; Rettore delPontificio Seminario Lombardo in Roma. È autore di circa 230 pubblicazioni.

Dovendo soffermarmi sulla Nota Gestis Verbisque, conviene premettere che essa non è una Nota rubricale, come potrebbe far pensare il titolo, con il suo riferimento ai gesti e alle parole connesse alla validità dei sacramenti.

Non vi sono indicate parole precise da dire ad validitatemmateria o forma che devono essere osservate né la Nota intende aggiungere alcunché a quanto già conosciuto, o che tale dovrebbe essere, in riferimento – è vero – ai sacramenti della Chiesa e alla loro valida e fructuosa celebrazione.

Non a caso la Nota richiama costantemente i Documenti già esistenti e a essi, dunque, rimanda: vi si richiamano i testi neotestamentari, patristici e medievali (Agostino e Tommaso); le parole della Congregazione della Dottrina della Fede e del Catechismo della Chiesa Cattolica; i documenti del Concilio di Trento e quelli del Concilio Vaticano II, da Sacrosanctum Concilium a Lumen Gentium; da Dei Verbum a Gaudium et Spes. Si riportano gli insegnamenti dei pontefici, da Leone XIII a san Paolo VI; da san Giovanni Paolo II a Benedetto XVI a papa Francesco, di cui si citano l’Enciclica Laudato si’ (24 maggio 2015) la Lettera Apostolica Desiderio desideravi (29 giugno 2022).

La Nota rimanda a – o è nata da – una situazione oggettiva, richiamata sia nella Presentazione del Documento sia nella sua Introduzione (n. 2): la celebrazione invalida di sacramenti, che in alcuni casi ha provocato situazioni drammatiche dal punto di vista pastorale e delle quali si è avuta eco anche nella stampa, come alcuni sacerdoti, che dopo anni di ministero hanno scoperto che il loro Battesimo era stato amministrato invalidamente, rendendo nulli, dunque, tutti i sacramenti ricevuti successivamente, in particolare l’ordinazione presbiterale e, conseguentemente, tutti i “sacramenti” da loro celebrati.

Ci pare, dunque, che la Nota intenda offrire una riflessione che da una parte è sul passato e dall’altra è sul futuro, affinché non abbiano più ad accadere simili gesti vuoti, simili non sacramenti, simili sacrilegi – se è permesso usare un termine per certi versi drammatico.

Mi pare che la Nota ruoti o possa ruotare intorno a tre capitoli: Cristo, la Chiesa, i ministri della Chiesa.

Chi celebra i sacramenti

È evidente – mi pare – che il primato – che andava riconosciuto dai “fantasiosi aggiornatori dei sacramenti” e che deve essere ribadito e forse di nuovo insegnato – è la verità assoluta che è Cristo che celebra i sacramenti:

Istituiti da Cristo, i sacramenti sono, dunque, azioni che attuano, per mezzo di segni sensibili, l’esperienza viva del mistero della salvezza, rendendo possibile la partecipazione degli esseri umani alla vita divina. Sono i “capolavori di Dio” nella Nuova ed eterna Alleanza (Gestis verbisque, n. 1).

Il punto di partenza è il Signore Gesù, del quale i sacramenti sono azione, modi di comunicarci la Sua volontà di salvezza, che è poi la Sua volontà di comunione con noi, di assumerci nella comunione con Lui. Perché per questo il Padre lo ha mandato: per annunciare le parole del Padre e per donarci la Sua stessa vita. Di qui la conseguenza che fu cantata da papa Leone Magno:

Quod […] Redemptoris nostri conspicuum fuit, in sacramenta transivit (Sermo LXXIV: De ascensione Domini II, 1).

Parole che papa Francesco ha ripreso nella Lettera Apostolica Desiderio desideravi, che è testo di riferimento primario della Nota Gestis verbisque:

Fin da subito la Chiesa ha compreso, illuminata dallo Spirito Santo, che ciò che era visibile di Gesù, ciò che si poteva vedere con gli occhi e toccare con le mani, le sue parole e i suoi gesti, la concretezza del Verbo incarnato, tutto di Lui era passato nella celebrazione dei sacramenti (n. 9).

La Chiesa

Poiché è Cristo che celebra, ne consegue che con Lui e per Lui e in Lui celebra la Chiesa, che è la Sua Sposa, il Suo Corpo. Pertanto la Nota Gestis verbisque proclama:

Per questo la Chiesa nella Liturgia celebra […] i sacramenti che Cristo stesso le ha affidato perché li custodisca come preziosa eredità e fonte della sua vita e della sua missione (n. 1).

Non dimentichiamo il solenne e dogmatico incipit di Lumen Gentium:

Cristo è la luce delle genti: questo santo Concilio, adunato nello Spirito Santo, desidera ardentemente, annunciando il Vangelo a ogni creatura (cfr Mc 16, 15), illuminare tutti gli uomini con la luce del Cristo che risplende sul volto della Chiesa (n. 1).

Anche su questa dimensione ecclesiale occorre sostare, perché la Liturgia è «il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, al tempo stesso, la fonte da cui promana tutta la sua energia» (Sacrosanctum Concilium, n. 10). È la Chiesa, il Corpo del Signore Gesù che celebra, in Lui. Egli ne è il “capo”, ma riflettiamo sempre che questa parola italiana in latino è caput e in greco κεφαλή (kephalé):

Egli è anche il capo del corpo, della Chiesa (καὶ αὐτός ἐστιν ἡ κεφαλὴ τοῦ σώματος τῆς ἐκκλησίας; Col 1, 18).

Tutto infatti egli ha messo sotto i suoi piedi e lo ha dato alla Chiesa come capo su tutte le cose: essa è il corpo di lui (καὶ πάντα ὑπέταξεν ὑπὸ τοὺς πόδας αὐτοῦ, καὶ αὐτὸν ἔδωκεν κεφαλὴν ὑπὲρ πάντα τῇ ἐκκλησίᾳ; Ef 1, 22-23).

Il riferimento, allora, non è al potere: non è scritto dux, ma kephalé! Il riferimento è alla testa, che rimanda al corpo, cui dà vita e dal quale essa stessa trae vita. Questo legame profondo e inscindibile tra il capo e il suo corpo è ciò che permette di dire che quanto fa uno – il capo – lo fa anche l’altro, il corpo, che attua quanto il capo desidera. Per questo la Nota Gestis verbisque scrive:

La Chiesa è “ministra” dei Sacramenti, non ne è padrona. Celebrandoli ne riceve essa stessa la grazia, li custodisce e ne è a sua volta custodita (n. 11).

Da questa fedele obbedienza discende il dovere della stessa Chiesa di custodire «i gesti salvifici che Gesù le ha affidato» (Nota, n. 11), custodendone e stabilendone la materia, la forma, l’intenzione (cfr Nota n. 12):

La materia e la forma, per il loro radicamento nella Scrittura e nella Tradizione, non sono mai dipese né possono dipendere dal volere del singolo individuo o della singola comunità. […] Compito della Chiesa non è quello di determinarli a piacimento o arbitrio di qualcuno, ma, salvaguardando la sostanza dei Sacramenti (salva illorum substantia), di indicarli con autorevolezza, nella docilità all’azione dello Spirito (n. 15).

Il ministro o διάκονος (diakonos)

Solo dopo questa precisa e chiara affermazione, Paolo, cui ci siamo riferiti, introduce la categoria di ministro o διάκονος (diakonos). Ricordiamo Col 1, 24-25, parole che dobbiamo meditare:

Io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa. Di essa sono diventato ministro (ὑπὲρ τοῦ σώματος αὐτοῦ, ὅ ἐστιν ἡ ἐκκλησία ἧς ἐγενόμην ἐγὼ διάκονος), secondo la missione affidatami da Dio verso di voi di portare a compimento la parola di Dio.

Certo, potremmo anche registrare la variante di 1 Cor 4, 1:

Ognuno ci consideri come servi di Cristo e amministratori dei misteri di Dio (ὑπηρέτας Χριστοῦ καὶ οἰκονόμους μυστηρίων θεοῦ).

Οἰκονόμος (oikonómos) è colui che amministra la casa, che provvede a che tutti abbiano il giusto e svolgano il giusto; è colui del quale il padrone della casa ha fiducia e per questo gli ha affidato quel compito, del quale egli, l’oikonómos, deve essere degno: «Ciò che si richiede agli amministratori è che ognuno risulti fedele» (1 Cor 4, 2).

È solo a questo punto, dopo avere colto questa unità, che Paolo rimanda alla Chiesa, e, quindi, che ci si può soffermare sulla figura del ministro, quello che Paolo in Colossesi chiama diakonos.

Diakonos dice totale sottomissione al signore, al padrone, a Colui che incarica, a Colui che destina a (o cui riconosce) un servizio.

Forse conviene precisare che il diakonos non è uno schiavo, ma un collaboratore, che liberamente e volontariamente aiuta il padrone, o meglio il pater familias: questa era la relazione (che non dobbiamo dimenticare) tra incaricante e diacono. Non un rapporto da padrone a servo, ma tra due legati da stima, volontà di reciproca e generosa collaborazione, basata su reciproca libertà e reciproca fiducia: l’incaricante si fida del diakonos cui chiede e il diakonos si fida della richiesta di Colui che gli chiede una collaborazione, un servitium: in latino suona meglio e più rispettosamente dell’italiano servizio, poiché servitium custodisce un valore di partecipazione serena e gioiosa; non una sottomissione, ma una collaborazione con Colui che chiede a un diakonos di partecipare al Suo desiderio e di collaborare con Lui, confidando che anche lui (il diakonos) abbia a desiderarlo.

Il diakonos per sua natura deve fare quanto gli è comandato di fare, come gli viene chiesto (o indicato) di fare, pena il non essere più diakonos o il cessare di esserlo in quell’azione o parola diversa dall’azione affidatagli, dalla parola consegnatagli.

Non può agire di sua iniziativa (se non in aspetti contingenti e secondari), se non nel senso che deve mettere tutto sé stesso (corpo, intelligenza, volontà e cuore) nell’eseguire quanto Colui che gli ha detto (non chiesto) di fare gli chiede e si attende che egli, il diakonos, faccia.

Il diakonos che inventi, che faccia cose diverse rispetto a quelle che gli ha indicato il padrone (forse sarebbe meglio dire sempre “il pater familias”), non fa la volontà del padrone, ma fa la sua propria volontà; non collabora con il padrone, ma fa cose sue proprie, cose diverse, quelle che nella sua fantasia o autonomia o intraprendenza o narcisismo autoreferenziale ha deciso.

Ciò che fa, non è quello che il padrone gli ha chiesto. È altro, fors’anche una cosa bella, ma non quello che il pater familias gli ha chiesto; gli ha affidato.

Ne consegue che un diakonos che agisca come battitore libero, come autonomo referenziale, come fantasioso diakonos, in realtà cessa di esserlo: non sta diaconando, ma sta sovrapponendo sé stesso a Colui che lo ha scelto con fiducioso amore.

È questo lo statuto ontologico del diakonos. Altro non gli è permesso. Altro non gli è lecito, pena il non avere agito da diakonos; il non essere (stato) diakonos.

L’assunzione nel ministero

Non si tratta di indegnità, ma di non essenza, di non realizzazione del proprio essere; di non essere ciò che si è, senza dimenticare che non si nasce diakonos; non si nasce servo; non si nasce schiavo, ma lo si diventa per una libera e reciproca accettazione, che è significata da sempre come elemento caratterizzante e previo rispetto alla costituzione nello status di diakonos, di ministro.

Il rito prevede che il candidato, il prossimo ministro o diakonos, ponga le sue mani nelle mani dell’ordinante, un gesto di reciproca consegna e di reciproco affidamento con le parole solenni della promessa di obbedienza del candidato, cui l’ordinante risponde con il solenne commento: «Dio porterà (è un congiuntivo dichiarativo) a compimento l’opera che ha iniziato in te».

Di qui la riflessione ulteriore. Solo perché ci si è consegnati liberamente e coscientemente e volontariamente per essere diakonos/ministro il Vescovo assume, fa suo il candidato, il diakonos, il ministro.

Valgano le parole di Desiderio desideravi:

È di fondamentale importanza che il presbitero abbia anzitutto una viva coscienza di essere, per misericordia, una particolare presenza del Risorto (n. 57).

Dobbiamo riflettere sul gesto dell’imposizione delle mani. Non è (solo) per una missione; per un mandato, per un compito da svolgere, per un servizio cui attendere. Prima di tutto e soprattutto l’imposizione delle mani indica una comunione, una assunzione di colui cui sono imposte le mani e da parte di colui che impone le mani.

Tra l’ordinante (l’imponente le mani) e l’ordinato (colui sul quale sono imposte le mani) si crea un’unità, un’identità, una partecipazione a ciò che l’ordinante è e ciò che l’ordinato diventa.

Forse è proprio questa categoria che è stata troppo dimenticata, sottaciuta e, forse, è stata disattesa o ritenuta superata. L’insistenza sulla missione ha posto in ombra il primato della comunione.

La ricerca dell’autorealizzazione, un baluardo ideologico del nostro tempo, ha fatto dimenticare o posto in sordina che il consacrato si realizza in un solo modo: essendo (diventando) ciò per Chi e in Chi è stato assunto. Il consacrato realizza sé stesso, diventando Colui che lo ha assunto in Sé stesso.

L’unico modo per una piena realizzazione di sé da parte di un ordinato è di essere Colui che lo ha ordinato, facendo memoria che all’origine di questa trasmissione della comunione attraverso l’impositio manuum, che attraversa ormai i millenni, c’è Lui, Gesù Cristo.

La comunione dell’imposizione delle mani rende tale il consacrato che egli è Lui, alter rispetto a Lui. Non uno dei tanti, ma talmente identificato in Lui da essere Lui, alter rispetto a Lui. Alter non prevede “altri”, ma prevede solo “due”: uno e l’altro. Alter rimanda a una alterità, che può esserci solo tra due: Lui e io; Cristo e io; Cristo e ognuno che partecipi della Sua unica e indivisa ed eterna Persona.

Al ministero ordinato si possono (si dovrebbero) applicare le parole con le quali Gesù parlò della Sua relazione con Suo Padre:

Chi crede in me, non crede in me ma in colui che mi ha mandato; chi vede me, vede colui che mi ha mandato (Gv 12, 44-45).

Le parole e le azioni del ministro

Per questo non è dato al ministro altro che dire le parole del Signore Gesù, come Lui le ha dette; come Lui le intendeva. Lo dice con chiarezza la Nota Gestis verbisque:

Il vero presidente della celebrazione è solo Cristo. Egli è “il Capo del Corpo cioè della Chiesa” (Col 1, 18), in quanto la fa scaturire dal suo fianco, la nutre e la cura amandola fino a dare sé stesso per lei. La potestas del ministro è una diaconia (n. 24).

Non è lecito al ministro inventare parole diverse; interpretare in modo diverso dall’intentio (dal pensiero) di Gesù:

L’intenzione, insieme alla materia e alla forma, contribuisce a rendere l’azione sacramentale il prolungamento dell’opera salvifica del Signore. Materia, forma e intenzione sono tra loro intrinsecamente unite: esse si integrano nell’azione sacramentale in modo tale che l’intenzione divenga il principio unificante della materia e della forma, facendo di esse un segno sacro mediante il quale la grazia è conferita ex opere operato (n. 18).

Il ministro non deve inventare, ma pro-clamare, dire ad alta voce, essere voce che introduce all’incontro di Colui che sta venendo: il pro indica l’essere araldi, il precedere introducendo, annunciando Colui che sta per venire e del quale si proclamano il nome e le parole.

Se il ministro proclama altro che Lui, egli (il ministro) rinnega sé stesso. Il ministro che dice parole piacevoli per sé stesso (convinto di così piacere agli uomini, ai fratelli) parla di sé stesso, non di Lui – e per certi versi snatura sé stesso, non si realizza, perché il ministro si realizza solo essendo Lui, in opere e in gesti, in pensieri e in azioni.

Questa alterità è al fondamento di tutto e, quindi, non va ridotta alla sola celebrazione dei sacramenti, perché è una alterità ontologica, vitale.

Certo è impegnativa. Certo non è mai completa e sarà compiuta solo quando si creerà quella comunione reale tra l’alter di Lui e Lui, tra il ministro e il Suo Signore Gesù.

La vertiginosa altezza dei sacramenti

A questo punto i sacramenti assumono tutta la loro vertiginosa altezza – e forse di questo non siamo più molto coscienti – e forse non sono coscienti i fantasiosi inventori di forme nuove, di parole attuali, à la page – parole che sono loro, gesti che sono loro –, ma che non sono gesti né parole di Gesù Cristo, che li/ci ha assunti in Sé stesso per essere Lui nel mondo in persona nostra – o noi in persona Eius.

Anche questo punto è estremamente chiaro in Gestis verbisque:

La formula in persona Christi significa che il sacerdote ripresenta Cristo stesso nell’evento della celebrazione. Ciò si realizza in modo culminante quando, nella consacrazione eucaristica, pronuncia le parole del Signore con la stessa efficacia, identificando, in virtù dello Spirito Santo, il suo io con quello di Cristo. Quando poi il Concilio precisa che i presbiteri presiedono l’Eucaristia in persona Christi Capitis, non intende avallare una concezione secondo cui il ministro disporrebbe, in quanto “capo”, di un potere da esercitare arbitrariamente. Il Capo della Chiesa, e dunque il vero presidente della celebrazione, è solo Cristo.

Egli è «il Capo del Corpo cioè della Chiesa» (Col 1,18) […] Coloro che in forza della grazia sacramentale, vengono configurati a Lui, […] sono pertanto chiamati, nella Liturgia e nell’intero ministero pastorale, a conformarsi alla medesima logica, essendo stati costituiti pastori non per spadroneggiare sul gregge ma per servirlo sul modello di Cristo (n. 24).

Al ministro, dunque, è chiesto di essere il volto buono, misericordioso, invitante di Gesù; di essere “come Lui”, «mite e umile di cuore» (Mt 11, 29), lento all’ira e veloce più del fulmine nell’amore, enormemente ricco d’amore e di fedeltà (cfr Es 34, 6); dagli occhi così puri da neppure vedere il male (cfr Ab 1, 13).

Il ministro è chiamato prima ancora che a fare per Lui, a essere come Lui: è Lui, Gesù, il riferimento e chi si accosta al ministro di Dio, deve incontrare Dio nel Suo ministro, nel suo diakonos. Deve incontrare, Gesù, il Volto stesso di Dio e non (solo) il Suo (pur piacevole e simpatico) ministro.

Viene in mente quanto disse il capo del berberi in riferimento a san Charles de Foucauld: «Deve essere buono il suo Dio, se lui è così buono».

Noi siamo il volto stesso di Dio – e forse è perché non ne irradiamo più l’affascinante splendore che Egli non splende più luminoso agli occhi degli uomini d’oggi.

Il rischio della sterilità

Forse, così convinto a cercare il proprio volto, dimenticando il Suo, che è poi il nostro, l’uomo di oggi non vede più il volto di Dio, ma senza la luce di Dio noi uomini siamo volti spenti; siamo poveri senza la ricchezza infinita di Dio.

Ne va della stessa Chiesa, del Corpo: chi mette sé stesso al posto di Cristo, è come se si separasse dal Corpo, dal Capo – e quindi muore e muore sterilmente.

Questo è il senso stesso della non validità dei sacramenti. La non validità non significa che non sono fatti correttamente; non significa che non sono fatti secondo le rubriche o le norme. La non validità dice – semplicemente e terribilmente – che non ci sono; non c’è mai stato quel gesto di Gesù Cristo e, conseguentemente, non c’è (non c’è mai stato) ciò per cui Egli lo ha fatto; ciò per cui Egli lo ha affidato al Suo diakonos.

Valgano le solenni parole della Nota Gestis verbisque, che riprende la Nota dell’allora Congregazione e oggi Dicastero per la Dottrina della Fede del 24 giugno 2020:

Modificare di propria iniziativa la forma celebrativa di un Sacramento non costituisce un semplice abuso liturgico, […] ma un vulnus inferto a un tempo alla comunione ecclesiale e alla riconoscibilità dell’azione di Cristo (n. 22).

Fate… in memoria

Viene spontaneo il richiamo di quanto papa Francesco ha scritto nella Lettera Apostolica Desiderio desideravi:

A noi non serve un vago ricordo dell’ultima Cena: noi abbiamo bisogno di essere presenti a quella Cena, di poter ascoltare la sua voce, mangiare il suo Corpo e bere il suo Sangue: abbiamo bisogno di Lui. Nell’Eucaristia e in tutti i sacramenti ci viene garantita la possibilità di incontrare il Signore Gesù (Desiderio desideravi, 11).

A questo punto conviene anche riflettere sulla categoria di memoriale, che mi sembra sia diventata parola ultimamente un poco desueta.

Che cosa intendeva Gesù dicendo(ci): «Fate questo in memoria di me (τοῦτο ποιεῖτε εἰς τὴν ἐμὴν ἀνάμνησιν)» (Lc 22, 19)?

Non intendeva un mero ricordo, un ritorno cortese e cordiale e nostalgico a un passato sempre più lontano, sempre più sbiadito, sempre meno perspicuo al linguaggio nuovo dei tempi nuovi.

Memoriale non significa solo memoria o ricordo, ma memoria attualizzante. Il memoriale ha un duplice senso di attuazione. Ci rimanda ad allora e ci rimanda all’oggi, ci dice l’oggi dell’allora, l’oggi di quella celebrazione, l’oggi del mistero.

Non dimentichiamo che mistero significa propriamente l’agire di Dio che si va disvelando nel tempo all’uomo.

Il mistero non significa cosa incomprensibile, se non nel senso che, essendo azione (o parola) divina, non potrò mai possederla in pienezza, ma dovrò custodirla con devotio, facendomene ogni giorno istruire; cercando ogni giorno di comprenderla un poco di più; rendendomi disponibile allo stupore quotidiano che mi investe nello scoprire che cosa di nuovo ogni giorno Dio mi dice del Suo mistero, del Suo agire e parlare per condurmi all’incontro eterno con Lui, che è la vera e l’unica cosa che Egli desidera.

Unico è il sacrificio di Cristo. Unico il sacramento della Sua «definitiva» (questo il significato di “nuova”) ed «eterna Alleanza», quella stipulata nel Cenacolo, in vista della Sua Pasqua, che lì nel Cenacolo inizia e si compie sulla Croce, nel dono, nell’effusione, nella consegna del Suo Spirito. Ricordiamo bene con quali parole inizia la Cena pasquale, la Cena dell’Alleanza:

Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine (ἀγαπήσας τοὺς ἰδίους τοὺς ἐν τῷ κόσμῳ εἰς τέλος ἠγάπησεν αὐτούς; Gv 13, 1).

Il vertice, la mèta di queste parole è quella che Giovanni intuisce e svela in Gv 19, 30:

Dopo aver preso l’aceto, Gesù disse: «È compiuto!». E, chinato il capo, consegnò lo spirito.

Parole che solo in greco custodiscono la loro bellezza e profondità:

ὁ Ἰησοῦς εἶπεν· Τετέλεσται, καὶ κλίνας τὴν κεφαλὴν παρέδωκεν τὸ πνεῦμα.

Il vertice, la mèta il compimento («È compiuto!» – Τετέλεσται [Tetélestai]) riprende volutamente – splendidamente – il verbo iniziale di Gv 13, 1: «εἰς τέλος ἠγάπησεν [eis telos egápesen]» («lì amò sino alla fine) e lo compie, lo rende perfetto, compiuto, definitivo: «Τετέλεσται».

Il compimento è il dono, la consegna del Suo Spirito: «Τετέλεσται […] παρέδωκεν».

Solo quello è il sacrificio di salvezza, quello che ha cancellato il peccato del mondo, quello che ha sigillato l’alleanza eterna di Dio con i Suoi figli, l’umanità intera.

Solo quello è stato offerto per tutti nel pieno rispetto (nella pro-vocazione) della libertà di ognuno che lo voglia: «Prendete e mangiatene […] Prendete e bevetene tutti», cui segue il «per voi […] per molti, ovvero per chiunque (tutti) lo voglia.

Questo il senso del molti, della moltitudine rispetto al primo omnes, ben evidenziato nella formula latina: «Accipite et bibite ex eo omnes […] qui pro vobis et pro multis effundétur in remissiónem peccatórum. Hoc fácite in meam commemoratiónem».

Di questa unicità insuperabile dobbiamo tornare a essere coscienti.

Vox Plebis Dei

Forse l’insistenza sulle (molte e frequenti) riforme liturgiche e il sottolineare l’aspetto assembleare della celebrazione dell’Eucaristia (il sacramentum per eccellenza) e dei sacramenti che da essa derivano e a essa conducono; forse l’insistenza (comprensibile nel cammino storico) sul fatto che la comunità, l’ecclesia (il popolo credente raccolto intorno al Suo Signore per lodarlo e ricevere il Suo dono) ha lasciato anche verbalmente il posto al luogo (da chiesa ad aula!); forse l’aver privilegiato la celebrazione partecipata ha posto un poco in ombra che l’actuosa participatio non è la partecipazione attiva ai gesti celebrativi, ma al sacramentum di Cristo.

In questo senso Benedetto XVI ci ricordò che il celebrante non volge le spalle al popolo, ma è – potremmo dire – il capofila, colui che apre la fila e quindi rimanda immediatamente a chi è in fila con lui – dopo di lui, ma solo per contingenza cronologico-localistica, non per condizione o status: il ministro è diakonos e come tale rimanda a quelli per i quali è ministro, diakonos.

Il celebrante – ci ricordò con indubitabile chiarezza papa Benedetto – è il primo di tutto il popolo che si rivolge all’unico Signore, che rende tutti fratelli e in primis quel fratello che celebra: egli non esclude il popolo, ma ne assume tutta la partecipazione e in questo riferimento si fa guida, capofila verso e davanti all’unico Signore.

Egli, dunque, è celebrante nella modalità del presidente, di colui che inizia, che siede per primo, che parla per primo a nome di tutti e per tutti e a tutti. Parla di tutti a Lui, parla di Lui a tutti. Tutti, il celebrante o presidente in testa, rivolti/o all’unico vero Protagonista, il Signore Gesù.

Il celebrante o presidente è il primus inter pares degli oranti; è la vox degli oranti, che pregano con lui; si uniscono alle sue parole (questo il senso profondo dello stesso “Amen”, con cui siglano le parole del fratello che celebra), perché siano le loro parole, certi che le sue parole oranti sono le loro parole oranti all’unico Dio presso cui sono e del quale egli, il presidente o celebrante, è voce.

Preterire il Crocifisso, renderlo secondario, se non superfluo, significa rischiare pericolosamente di dimenticare per Chi siamo lì, con Chi siamo lì – e inevitabilmente conduce a porre in rilievo chi è lì, il celebrante e la gente, non la Plebs Dei, convocata come popolo orante e dunque tutto agente e partecipante.

L’actuosa participatio non consiste nel fare qualcosa nella celebrazione, ma nell’essere partecipanti (participes) alla celebrazione, nella comunione che la celebrazione crea e cui chiama e cui impegna chi è lì per essere e vivere come popolo di Dio, come plebs Dei, cantata nell’arco trionfale della Basilica di Santa Maria Maggiore.

Ebbene, memoriale ci ricorda che noi siamo seduti a quella unica e insuperabile Cena che diventa, che è “questa” cena, quella che celebriamo – non in ricordo di quella, ma rendendo presente quella e rendendoci partecipanti a quella.

Tra l’oggi della celebrazione, dei sacramenti e l’allora della Cena del Signore non c’è alterità, se non quella stessa per cui chi celebra oggi è alter di Colui che celebra oggi quanto ha celebrato per sempre quel giorno.

I sacramenti vie del e al Sacramento

E, consequenzialmente si deve dire di tutti gli altri sacramenti, che dal Sacramentum derivano o al Sacramentum conducono.

Di qui l’affermazione indiscutibile che è Cristo che battezza; è Cristo (lo Spirito di Cristo) che conferma; è Cristo che perdona e riconcilia; è Cristo che consacra il patto o comunione coniugale; è Cristo che assume in sé i ministri; è Cristo che consola e consacra il dolore, che inevitabilmente accompagna l’uomo e lo prepara all’incontro eternamente gioioso con Lui.

Sono affermazioni che rimandano non solo o non tanto alla Costituzione Sacrosanctum Concilium (n. 7), bensì alla grande e non trascurabile Tradizione della Chiesa, perché richiamano le parole di sant’Agostino:

Battezzi Pietro, è Cristo che battezza; battezzi Paolo, è Cristo che battezza; battezzi Giuda, è sempre Cristo che battezza (Omelia 6 in Joannem).

E le parole di sant’Agostino ci rimandano a quelle di Giovanni il Battista, alla sua testimonianza nei secoli:

Colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: «Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo». E io ho visto e ho testimoniato» (Gv 1, 33-34).

È, dunque, il Signore il protagonista dell’evento che si celebra. Non a caso papa Francesco in Desiderio desideravi – riprendendo il n. 7 di Sacrosanctum Concilium – scrive:

La Liturgia è il sacerdozio di Cristo a noi rivelato e donato nella sua Pasqua, reso oggi presente e attivo attraverso segni sensibili (acqua, olio, pane, vino, gesti, parole) perché lo Spirito, immergendoci nel mistero pasquale, trasformi tutta la nostra vita conformandoci sempre più a Cristo (n. 21).

Nascosto per la nostra Salvezza

Desidero concludere con la stessa conclusione di papa Francesco nella Lettera Apostolica Desiderio desideravi, che è la preghiera di san Francesco d’Assisi nella Lettera a tutto l’Ordine (II, 26-29):

Tutta l’umanità trepidi, l’universo intero tremi e il cielo esulti, quando sull’altare, nella mano del sacerdote, è presente Cristo, il Figlio del Dio vivo. O ammirabile altezza e stupenda degnazione! O umiltà sublime! O sublimità umile, che il Signore dell’universo, Dio e Figlio di Dio, si umili a tal punto da nascondersi, per la nostra salvezza, sotto poca apparenza di pane!

Guardate, fratelli, l’umiltà di Dio, e aprite davanti a Lui i vostri cuori; umiliatevi anche voi, perché siate da Lui esaltati.

Nulla, dunque, di voi trattenete per voi, affinché tutti e per intero vi accolga Colui che tutto a voi si offre.