Forse “architettura contemporanea” e “spazio sacro” sono termini che tendono a escludersi a vicenda. Mi sembra in una certa misura liberatorio iniziare questa riflessione con queste parole. Sì perché se penso a questi due termini mi viene in mente la famosa immagine gestaltica dei due profili neri che si guardano e che delineano un calice nello spazio bianco che li separa: se ci si concentra sul calice non si riescono a vedere i due profili, e se ci si concentra sui profili scompare il calice. L’architettura contemporanea è figlia dell’architettura moderna, inaugurata nel 1908 dal libro Ornamento e delitto con cui Adolf Loos trasferiva nel mondo dell’architettura quell’altro delitto, quello filosofico avvenuto un trentennio prima, quello dell’uccisione di Dio che Nietzsche faceva accadere nel mercato della città. La decorazione è morta con l’architettura moderna, e con essa ogni valore simbolico e potremmo dire meta-materiale rispetto alla “onestà” della materia nuda, del materiale nudo, del volume nudo, del colore nudo. Quindi l’architettura contemporanea non può esprimere il sacro perché si scopre nuda, cioè senza gli strumenti, senza le parole per descrivere il sacro, e nemmeno per ispirarlo. La realtà e la storia dell’architettura però provano il contrario. Esempi commoventi di architettura sacra contemporanea dimostrano che questo non è vero. Ed è da questo “mistero” che forse può partire una linea di approfondimento, un percorso esplorativo di quest’àmbito dell’espressione artistica che come tale rivela a ogni lettura livelli sempre diversi e sempre più profondi d’interpretazione.
Come può essere quindi? Come è possibile che un’architettura come quella contemporanea, nata dall’eliminazione programmatica di qualsiasi senso sovrastrutturale allegorico e stilistico, e che si concentra sulla pura e nuda materia, riesca ad aprire un varco all’intero di questa pura materialità, uno squarcio emotivo e sorprendente verso valori e dimensioni che trascendono il reale e la materia stessa?
Liberarsi del romanticismo
Penso che per andare avanti in questo ragionamento devo probabilmente liberarmi di un retaggio culturale che inquina quasi sempre l’argomentazione intorno al tema del sacro contemporaneo in architettura. Mi riferisco all’eredità culturale di cui ancora risentiamo e che deriva dell’epoca del romanticismo ottocentesco. In quest’epoca la concezione del sacro è stata fortemente influenzata da una mitizzazione del cristianesimo del passato per nulla basata su evidenze storiche, ma piuttosto su ipotesi spesso arbitrarie sulla storia, quelle stesse ipotesi che hanno inaugurato l’epoca del revival dei vari neo-ismi: neo-classicismo, neo-romanico, neo-gotico eccetera. Non erano affatto interpretazioni filologiche delle epoche passate, ma piuttosto rappresentazioni di idee romantiche del passato. Si inserisce in questo momento una vena lirica nella rappresentazione dell’architettura sacra, una sorta di forzatura emotiva che sembra dettata dalla necessità di reazione alla fase dei lumi, nel tentativo di ricucire lo strappo ormai avvenuto con il quale la ragione aveva espulso qualsiasi meta-realtà dall’àmbito della cultura ufficiale, per surrogare quindi il senso del sacro trasponendo la verifica della sacralità più sul piano del sentimento che non su quello della ragione e della sostanza.
La basilica e il tempio
Intendiamoci, qui si parla dell’intelligenza progettante, di come cioè la cultura architettonica abbia affrontato il tema del sacro e di come questo approccio si sia trasferito nelle opere realizzate. La devozione dei “semplici” e delle masse era in questa fase ancora solida, diffusa e praticata, esisteva quindi un’esigenza concreta in una fase di grande crescita demografica a cui l’intellighenzia progettante era costretta a offrire soluzioni.
Mi è sembrato importante fare un piccolo excursus perché ritengo che un residuo di questa “caricatura lirica” rimane nella lettura del sacro contemporaneo. Il progettista che affronta il tema del sacro è come se si mettesse in una “modalità sacro”, come se disegnare un edificio religioso costituisse una soluzione di continuità rispetto a un qualsiasi altro tema progettuale.
Ma se noi facciamo un passo indietro alle epoche a cui quella romantica nostalgia del sacro si riferiva, scopriamo che i medesimi costruttori realizzavano con il medesimo approccio architetture sacre e architetture civili, e se andiamo ancora più indietro, alle origini dell’edifico sacro cristiano, a quando cioè i cristiani con Costantino uscirono dalla clandestinità e dovettero scegliere una tipologia edilizia tra quelle romane, non scelsero di utilizzare la tipologia del “tempio”, ma scelsero la “basilica” che non era per nulla una tipologia sacra, ma anzi era l’edificio civile per eccellenza. La basilica romana era infatti un luogo urbano coperto, il luogo cioè dove si svolgevano le attività del foro durante l’inverno o quando pioveva. Insomma l’architettura sacra non era qualcosa di diverso rispetto alle altre architetture, ma anzi, se una differenza c’era era perché l’architettura sacra era più “architettura“ delle altre architetture.
Quindi era un luogo urbano, civico, che diventava sacro per il senso che i fedeli gli conferivano con le loro liturgie sacre e con i loro incontri. È il luogo dove la comunità si trovava per pregare e per “spezzare il pane”, attività che in precedenza avveniva nelle case più spaziose di alcuni fedeli. Le dieci più antiche chiese di Roma sorgono ancora oggi sul sito delle abitazioni dei più facoltosi tra i membri della primissima comunità cristiana della città.
Ma torniamo al presente, e possibilmente al contemporaneo. Vorrei parlarne commentando degli edifici concreti, ma vorrei farlo senza puntare al sensazionale o alla cronaca della novità a tutti i costi. Anche questa è una patologia della nostra contemporaneità: il nuovo e il mai visto a tutti i costi. Viviamo in un metabolismo iconografico impazzito dove l’architettura viene confusa con l’immagine dell’architettura, il cui consumo diventa sempre più veloce al punto che la pubblicazione di un solo rendering rende obsoleta persino la successiva realizzazione di quello stesso rendering.
Ho quindi selezionato alcuni esempi che però vorrei commentare alla luce delle considerazioni fatte fin qui e utilizzando strumentalmente per accennare a degli spunti di lettura artistica e cioè “orientata al fare”, come avrebbe detto Jacques Maritain, individuando dei temi e dei rimandi storici in una sorta di linea di continuità interpretativa dello spazio sacro tra storia e contemporaneità.
La scomparsa della decorazione ha precluso all’architettura il linguaggio simbolico, ma la pura materialità che ne rimane ha messo a nudo l’etica geometrica delle forme e degli spazi. Diventa quindi estremamente sottile il margine di controllo artistico, l’architettura contemporanea è diventata un’arte “ardua” come la danza: la distanza tra sublime e banale è racchiusa in pochissimi centimetri. Ancora di più quindi la capacità di ispirare il sacro. È qui che si apre il pericolo del soggettivismo, dell’arbitrario, e del “gesto romantico”. Ci si rimette alla sensibilità soggettiva e personale del grande artista e del grande architetto. Gli esempi sono numerosi e arcinoti. Penso che invece una chiave di lettura più solida e condivisibile a tutti i livelli, sia quella della continuità di alcuni temi prettamente architettonici appartenenti all’evoluzione storica dell’idea e dell’utilizzo dello spazio sacro. Ed è forse questo il discrimine che consente all’architettura contemporanea di differenziare uno spazio sacro dal pericolo della banalità che purtroppo fa di molti spazi sacri delle semplici sale-conferenze o nei casi peggiori dei capannoni industriali.
Nei tre “temi” esemplificativi, ma ovviamente nient’affatto esaustivi, che cercherò di esemplificare e commentare con alcuni esempi vorrei tracciare con maggior precisione questa possibile chiave di lettura per significare come proprio la continuità con la tradizione della progettualità del sacro consenta alla materialità dell’architettura contemporanea di ispirare la sacralità dello spazio stesso affrancandosi dall’arbitrio della soggettività sintomo di quel “residuo di romanticismo” a cui mi riferivo.
Lo spazio orientato
Quando intendiamo significare che abbiamo preso coscienza della nostra posizione nello spazio diciamo che ci siamo “orientati.” L’Oriente è la direzione verso cui sono per l’appunto “orientate” possibilmente tutte le chiese cristiane. Verso est, verso il sole che sorge simbolo di Cristo. Spesso questa esigenza ha generato sorprendenti anomalie nella collocazione urbana di molte chiese, ma ha sempre anche definito e conferito allo spazio sacro interno una direzionalità, una convergenza verso un punto, uno scopo della percezione. Lo spazio orientato assume quindi un senso, diventa un procedere, un guardare verso, un disporsi nello spazio con la chiarezza di un davanti e di un dietro, di un futuro e di un passato. Dare senso alla propria presenza e al procedere nell’esistenza è la caratteristica della sacralità di questo genere di spazio che trova nella “navata” e nella teoria di colonne la più classica delle interpretazioni della tipologia basilicale. In Sant’Apollinare nuovo a Ravenna (fig. 1) questo concetto è magistralmente esemplificato nelle teorie di santi raffigurati nei mosaici che replicano la processione di colonne e si rivolgono tutti verso l’altare.
Nelle due architetture attuali che propongo qui troviamo come il linguaggio contemporaneo possa inserirsi perfettamente in questa linea nella quale la direzionalità dello spazio assume il ruolo di idea portante dell’intero concetto architettonico. Nella chiesa della parrocchia di Borgonuovo a Verona (fig. 2), il “verso” direzionale della navata si fonde con la geometria del catino absidale che funge da conclusione dinamica e da enfasi del focus visivo e percettivo dello spazio interno. Nel Santuario de Señor de Tula, in Messico (fig. 3), le grandi arcate aperte e senza serramenti, a causa delle particolari condizioni metereologiche del luogo, estendono la direzionalità dello spazio interno allo spazio naturale circostante.
La pianta centrale
L’imperatore Adriano fu anche architetto e dobbiamo a lui (è una mia opinione personale) la nascita dell’architettura occidentale. Il Phanteon (124 d.C., fig. 4) è infatti la prima architettura che nasce dalla concezione dello spazio interno come momento generativo dell’architettura e che differenzia totalmente l’architettura romana da quella greca classica. Il Phanteon è anche il prototipo di tutti gli spazi a pianta centrale. Non a caso si trattava di uno spazio sacro, il tempio di tutti gli dèi, divenuto successivamente (609 d.C.) il tempio dell’unico Dio, e a oggi forse il luogo di culto più antico continuativamente in uso dell’intero Occidente.
Ma fu la basilica, come abbiamo visto, a prevalere nei primi secoli come tipologia sacra del mondo cristiano, un luogo urbano quindi, una “piazza coperta”. La pianta centrale ritorna con il Rinascimento, torna cioè quando il centro del mondo terreno dell’uomo divenne simbolicamente importante come esito di un percorso di razionalità, e come rappresentazione della perfezione. L’uomo stesso è inserito da Leonardo in un cerchio e in un quadrato, le due figure la cui reductio ad unum divenne uno dei grandi temi della cultura rinascimentale: la “quadratura del cerchio”.
Il centro quindi, il qui e ora della Presenza sacra, il cerchio e il quadrato, ma anche i fedeli disposti in cerchio intorno al sacro sono i temi che anche nell’architettura sacra contemporanea trovano continuità di interpretazione e di sintesi.
Nella chiesa di San Venceslao a Sazovice, in Repubblica Ceca (figg. 5, 6 e 7), la centralità sembra dinamicamente messa in movimento con aperture e traiettorie di “fuga” curvilinee. È al centro dello spazio interno che si percepisce visivamente la sorgente di questa energia “rotatoria” che si estende e che avvolge l’esperienza visiva.
Verso l’alto invece sembra spingere lo spazio centrale della cappella reale del vescovo Edoardo nel Cuddesdon, Oxfordshire, Regno Unito (figg. 8 e 9) che in realtà fonde in sé diversi temi. La planimetria è ellittica, in continuità con la tradizione barocca che trovava nell’ellisse il compendio tra spazio centrale e direzione. Ma oltre a questo i “telai” verticali interni interpretano un altro carattere dello spazio sacro della tradizione, questa volta mutuato dai lunghi pilastri compositi delle chiese gotiche che vibrano lo spazio di fenditure chiaroscurali fitte e parallele e tutte rivolte verso l’alto.
La facciata, scenario urbano
Con il progetto per il completamento di San Lorenzo a Firenze, Michelangelo aveva inventato una facciata rivoluzionaria (fig. 10). Sebbene mai realizzata, essa aveva la caratteristica inedita di avere tre prospetti: quello frontale ovviamente, ma anche dei sorprendenti prospetti laterali che trasformavano lo “spessore” della facciata in autentico partito architettonico e la facciata stessa da semplice elemento bidimensionale in un vero e proprio edificio urbano a tutto tondo.
Da quel momento la facciata poté assumere una propria autonomia architettonica emancipandosi per così dire dal ruolo di semplice chiusura terminale dello spazio interno per assumere invece un senso decisamente urbano. L’apice di questa evoluzione la troviamo nella facciata della chiesa di Vigevano (fig. 11), dove l’invenzione geniale di una facciata curva che riconduce l’asse inclinato della chiesa alla simmetria della piazza, coinvolge necessariamente anche una strada laterale il cui accesso alla piazza diventa una porta che “buca” la facciata simmetricamente con le porte di accesso alla chiesa.
Questo estendersi della facciata oltre l’edificio sacro per “avvolgere” lo spazio urbano circostante e ridefinirlo è quanto succede nelle due chiese contemporanee che ho selezionato: la chiesa di San Francesco al Fopponino di Giò Ponti a Milano (fig. 12), e la chiesa di San Giovanni a Sesto, di Cino Zucchi. Magistralmente Ponti inventa una struttura che come a Vigevano confonde i portali di accesso alla navata centrale con dei fori che inquadrano losanghe di cielo nell’architettura, trasformando l’intera facciata in un pannello urbano che plasma uno spazio sorprendente e inaspettato in una via secondaria della città.
Allo steso modo Zucchi nella chiesa della Risurrezione a Sesto San Giovanni (Milano) (fig. 13) estende la porta di ingresso della chiesa all’intera facciata e da questa si risvolta in orizzontale divenendo sagrato, per trasformarsi poi in quinta urbana e addirittura in campanile.