Una città mondo
Istanbul è una città mondo, sulla quale è difficile aggiungere qualcosa agli innumerevoli commenti, riflessioni e descrizioni che hanno cercato di catturare l’essenza di questo luogo al centro di tutto e che allo stesso tempo segna il confine di molte cose. Sospesa tra Europa e Asia, vista dal Bosforo la città pare godere di una maestosa tranquillità regalatale dai secoli. Una volta sbarcati, si viene invece travolti da una confusione disordinata di uomini e macchine. I famosi ponti di Istanbul uniscono le diverse sponde geografiche e questi due aspetti contrastanti. Oggi si fa un gran parlare di ponti, divenuti una metafora politica quasi sempre abusata. Nella megalopoli turca, il ponte di Galata, il più celebre tra i ponti della città, non è un semplice luogo di passaggio o di confine, ma un luogo di vita, in cui gli abitanti della città riescono a ritagliarsi uno spazio importante tra il fluire dei turisti e il traffico che domina le due sponde. Da questo luogo magico, gli stanbulioti si fermano a leggere seduti su uno sgabello e, soprattutto, pescano. Nel cielo, le canne da pesca si intrecciano con i minareti svettanti delle grandi moschee che dominano la scena del quartiere più antico, creando geometrie affascinanti che incuriosiscono le macchine fotografiche dei passanti. Dal ponte di Galata si gode di una visione unica, quasi riassuntiva di questa città mondo. Solo da qui si possono percepire, allo stesso tempo, il traffico infernale del Bosforo e la maestosità delle moschee arroccate sui colli del Corno d’Oro. Da qui si sperimenta la vertigine della storia.
Orhan Pamuk, nella sua autobiografia tutta incentrata sul rapporto con la città, si sofferma ripetutamente sulla malinconia di Istanbul. «Perché mi sforzo così tanto di spiegare per bene al lettore che il sentimento che mi comunica la mia città, dove ho passato tutta la vita, è la malinconia? Non ho alcun dubbio che lo stato d’animo fondamentale che ha dominato la città in questi ultimi centocinquant’anni (1850-2000), e che la città ha diffuso intorno a sé, è inesorabilmente la tristezza»1. Nella frenesia degli ultimi anni è forse più difficile cogliere questo sentimento come predominante, ma se si osserva con attenzione la città fuori dalle piazze da cartolina e dal fermento – di vita e talvolta di rivolta sociale – di piazza Taksim, non si potrà rigettare la lettura di Pamuk. Tre quartieri storici della città conservano questo fascino della malinconia: Fatih, Fener e Balat. Fatih è una piccola città dentro la megalopoli, è il centro islamico di Istanbul, con la sua grande moschea e i viali traboccanti di locali e di caffè, in cui si incontrano gli abitanti – molti immigrati dal sud del Paese – ignari del traffico nel resto della città. Fatih è il quartiere per chi è alla ricerca dell’autenticità, ideale mitizzato e inarrivabile, ma caro a tanti viaggiatori. Poco distanti, Balat e Fener trasmettono sensazioni decisamente differenti: il primo è il quartiere greco, cuore della comunità cristiana ortodossa; mentre il secondo l’antico quartiere ebraico. Delle tradizioni di questi quartieri resta francamente poco. La bellezza un po’ decadente, è stata sostituita da molte case colorate, preda di un turismo del tutto particolare, alla ricerca di angoli pittoreschi instagrammabili. Le vie di Balat sono un susseguirsi di scatti di fidanzati intenti a soddisfare le proprie compagne in posa con fotografie per stupire amici e follower. Nell’immaginario collettivo, Istanbul non è associata a queste viuzze un tempo caratteristiche e la tirannia delle guide turistiche porta inevitabilmente tutte le coppie in questi angoli colorati. Anche Fener è vittima della stessa sorte, con murales in stile un po’ hipster, che nascondono la piccola chiesa di San Giorgio – quasi del tutto ignota al grande turismo – ancora oggi sede del Patriarcato di Costantinopoli, la più prestigiosa autorità religiosa di tutto il mondo ortodosso. Forse in questi due quartieri si respira un po’ di malinconia, dovuta soprattutto alla loro fine da sfondo per social.
Oriente incontra l’Occidente
Per rivivere quel senso di tristezza, sebbene di altra natura, di Orhan Pamuk, bisogna spostarsi sul Bosforo, disseminato di vecchie e caratteristiche case di legno. Anche lungo la costa e nelle isole dei Principi, luoghi vivi e mete di villeggiatura apprezzate, grandi case di legno, dipinte di bianco e ricche di intarsi, si affacciano sull’acqua, con il loro aspetto un po’ decadente e retrò. Trasmettono sì un senso di malinconia, ma misto a quel gusto per il caratteristico e per il tipico, di cui il viaggiatore è costantemente alla ricerca. Nelle isole dei Principi, in cui il turismo locale è fortemente sviluppato, può capitare di assistere a scene emblematiche, capaci di riassumere lo sviluppo della società turca degli ultimi decenni. Dalle scalette per scendere dagli scogli si tuffano gruppetti di allegre signore anziane, rigorosamente in costume da bagno. Le panchine circostanti diventano un improvvisato stabilimento balneare, in cui chiacchierare amabilmente.Mentre le figlie e le parenti più giovani, controllano i piccoli che corrono per le vie, sempre vestite e velate.
È un’immagine interessante, che testimonia l’evoluzione del costume della società turca: dall’occidentalizzazione forzata, inaugurata con l’invito di Atatürk alle donne di abbandonare il velo e poi proseguita con veri e propri divieti imposti per legge di indossare il velo in alcuni luoghi pubblici, come nelle università e sul posto di lavoro, fino ad arrivare alla valorizzazione delle tradizioni islamiche, con la nuova diffusione del velo in pubblico. Un percorso travagliato e affascinante, difficile da comprendere in Occidente, perché purtroppo affrontato con poche sfumature. Il ritorno al velo, portato avanti da Erdogan, è stato reso possibile non da una serie di imposizioni, ma dall’abolizione dei divieti imposti negli anni precedenti, cavalcando il caso divenuto celebre della giovane Sara Akgül, espulsa dall’università per il rifiuto di non indossare il velo. Le bagnanti dell’isola dei Principi, con le loro famiglie e la differenza così marcata nell’abbigliamento, incarnano uno straordinario racconto per immagini di un percorso ancora incerto e profondamente dibattuto.
Dalle chiese alle moschee
La trasformazione in corso ha una ripercussione forte anche sul rapporto che la città vive con il suo passato cristiano e bizantino. In epoca ottomana il pluralismo confessionale, alla cui base era posto il meccanismo dei millet, era vissuto con una naturalezza spesso sconosciuta in Occidente. Il Sultano era il garante ultimo di un sistema articolato e in un certo senso plurale, con la rivendicazione del titolo di unico e legittimo successore degli imperatori romani. Oggi il glorioso retaggio cristiano sembra messo un po’ in angolo: i più grandi capolavori bizantini sono tutti in restauro e quindi non accessibili. Santa Sofia, per secoli il più grande luogo di culto cristiano al mondo, è tornata a essere una moschea, dopo la lunga parentesi museale della repubblica laica. I mosaici delle cupolette, raffiguranti la Madonna e il Bambino, sono coperti da un telo e i loggiati superiori, ricchi di antiche testimonianze cristiane, sono tutti chiusi per lavori. Anche la chiesa di San Salvatore in Chora, scrigno di straordinari affreschi e mosaici bizantini, è inaccessibile. I lavori stanno ritrasformando la chiesa-museo in una moschea; stesso destino di Santa Sofia. Una storia ancora in via di definizione, che ha origine con la disgregazione dell’Impero e con la nascita della Turchia moderna, uno stato nazionale erede di esperienze storiche straordinarie, che trascendono la potenza e l’idea stessa di stato. A Istanbul, città mondo, sembra stare stretto il nuovo ruolo di grande città di uno stato, dopo le grandi vocazioni di seconda Roma e capitale del grande impero islamico. Le tre ragazze di spalle, ritratte davanti a Santa Sofia, simboleggiano le tre Istanbul e le tre Turchie che si ritrovano più volte nel viaggio: l’antico impero bizantino cristiano, l’eredità ottomana e la nuova Turchia, ancora in cerca di un’identità definita, tra laicismo dei primi decenni e ritorno alla tradizione islamica degli ultimi anni. In ognuna di queste tre fasi, Santa Sofia ha giocato il suo ruolo simbolico unico e straordinario.
L’anima della Cappadocia
La Cappadocia è senza dubbio uno dei luoghi più rappresentativi dell’anima bizantina della Turchia, con le sue infinite chiese e monasteri rupestri. Per secoli, questa regione non proprio ospitale è stata una delle più straordinarie culle del Cristianesimo. La Chiesa e la tradizione patristica fanno ancora oggi memoria dei Padri Cappadoci, san Basilio Magno, san Gregorio di Nazianzo e san Gregorio di Nissa, ritratti sulle pareti e sulle volte affrescate delle chiese rupestri di tutta l’area. I continui ritrovamenti hanno portato alla luce, in pochi decenni, un impressionante patrimonio spirituale, culturale e artistico, fatto di cunicoli scavati nella pietra; profondità in diretto contatto col cielo. Giorgio Agamben, genio filosofico oggi molto controverso, ha ricordato che «fra la caverna e lo spirito vi è un nesso immediato, altrettanto forte di quello che unisce il cielo alla mente»2. La riflessione del filosofo è maturata proprio con la visita al sito rupestre al centro della Cappadocia, in una delle chiese meglio conservate e con un magnifico corredo di affreschi. «A Göreme, nella chiesa della Fibbia, ho visto il volto del santo. Se lo guardi, non puoi non credere in lui. Così vi è una parola che, se l’ascolti, non puoi non crederla vera»3. È impressionante la densità di chiese, eremi e cenobi in una zona così ristretta. L’attrattiva per una vita ascetica così immersiva e dura, per questa spiritualità rupestre, ha davvero dato forma a una sensibilità religiosa forte e peculiare, carica di attese e simbolismi escatologici. Della storia dei singoli luoghi di culto e dei monaci che li abitavano sono rimaste pochissime notizie e il loro anonimato è il modo migliore per ricordare all’uomo contemporaneo che quella vicenda è una pagina della storia interiore dell’umanità intera e riguarda tutti. Questa sconvolgente eredità spirituale è immersa in un territorio di rara bellezza, nude rocce scavate dai millenni in forme particolari e impensabili. Sono le famose valli della Cappadocia, con i camini delle fate e le cittadine scavate nella pietra e incastonate in bizzarre montagne rocciose. Non si può nascondere che la bellezza dei luoghi e la forte suggestione che evocano sono macchiati da un turismo a tratti selvaggio e da una gestione non sempre saggia. La cittadina di Göreme, a due passi dai sensazionali complessi rupestri e immersa tra i camini delle fate è diventata una piccola Los Angeles, con locali abbaglianti di ogni tipo. Calato il tramonto, si accendono le luci accecanti di dozzinali ristoranti cinesi, indiani e di cucina presunta locale, imbastiti con scarso gusto per soddisfare l’appetito di orde di turisti che hanno trascorso giornate fisicamente impegnative su mongolfiere, quad, cavalli e persino qualche cammello. Il traffico e il rumore delle strade dei principali siti della regione contrastano nettamente con il silenzio che ha custodito per secoli i siti rupestri e i suoi asceti dimenticati.
Islam e cristianesimo
Come spesso capita in queste situazioni, se la grande massa si concentra in alcuni luoghi, altre zone rimangono fruibili, sia per i viaggiatori che per gli abitanti dell’area. È il caso della valle di Soganli, una zona poco conosciuta, ma fortemente suggestiva per la bellezza dei paesaggi e per la scoperta dei piccoli villaggi rimasti ancora nella piena disponibilità dei suoi fortunati abitanti. Anche in quest’area, a un’ora di macchina da Göreme, si possono ammirare pregevoli chiese rupestri e, su tutte, il monastero di Keslik, il più grande cenobio di tutta la Cappadocia, ricco di affreschi quanto spoglio di visitatori. Il contatto con i locali, a Soganli, è facilitato dal giusto equilibrio fra abitanti e turisti. Qui si entra in paesi ancora realmente abitati e la gente del posto è immediatamente incuriosita da chiunque giunga nel loro paese. I viaggiatori sono in numero ridotto, ma rigorosamente italiani, come si può facilmente comprendere dal fatto che tutti gli abitanti del luogo hanno imparato qualche frase in italiano, da ripetere a voce non appena qualcuno si avvicina. In questa zona, le donne lavorano a mano la pezza per dar forma a graziose bamboline. Non si fa in tempo ad arrivare al bancone che subito si sente ripetere il mantra «compra bambolina, compra bambolina» (Figura 2). Le ricamatrici, senza sentire una sola parola, intuiscono subito la nazionalità dei presenti. Evidentemente, soltanto le versioni italiane della guida consigliano queste zone a chi voglia allontanarsi dai siti più affollati. Ritorna la tirannia delle guide, che a volte riesce a regalare piacevoli sorprese. Qui si respira un’atmosfera diversa. Il silenzio afoso avvolge le punte rocciose dalle forme stravaganti e culla rispettosamente gli antichi eremi e monasteri. C’è finalmente piena consonanza tra la storia di questi luoghi e la vita di oggi. Il retaggio di un Cristianesimo intenso e misticheggiante, oggi diremmo orientale, anche se un tempo così non era, è in assoluta armonia con i piccoli villaggi di campagna, da cui svettano timidamente i minareti delle moschee di paese. Soltanto il richiamo del muezzin squarcia il silenzio della calura estiva. È la stessa armonia di altri straordinari luoghi della fede, oggi immersi in meravigliosi siti archeologici o in cittadine turche moderne e turistiche.
Dove si tocca la storia
Efeso è certamente l’esempio più illustre. Una delle più grandi metropoli dell’antichità è oggi la città antica più grande e meglio conservata al mondo. A Efeso si cammina davvero nella storia, sulle stesse strade di un tempo. Il teatro, la luminosa via dei cureti, la maestosa biblioteca di Celso e la lunga via che arriva al porto antico. La pianta della città è perfettamente integra, così come tantissime porzioni di antichi palazzi, il tutto immerso nel verde di dolci montagne. A Efeso si sperimenta fisicamente il passaggio dalla stagione più gloriosa dell’Impero romano al trionfo del Cristianesimo. Ai margini dell’enorme sito archeologico, ma non lontano dai grandi templi e dalla biblioteca di Celso, monumento simbolo della città, ci sono i resti della prima basilica dedicata a Maria, all’interno della quale si svolse, nel 431, il Concilio di Efeso, sulla definizione dogmatica della Madre di Dio. Una targa incastonata nell’abside ricorda la visita e la liturgia celebrata da Paolo VI. Fuori dalla città vecchia, immersa nei boschi, è nascosta la casa di Maria, dove la Madonna abitò dopo la morte terrena del Figlio. La piccola abitazione in pietra, luogo sacro per cristiani e musulmani, che la celebrano come madre di un profeta, è meta di numerosi pellegrinaggi. Una devozione raccolta e relativamente recente, frutto delle scoperte archeologiche di fine Ottocento, guidate dalle visioni della mistica tedesca Anna Katharina Emmerick. In direzione opposta, a valle, ai piedi del castello che sorge nell’odierna cittadina di Selcuk, ci sono le rovine della Basilica di San Giovanni, tra i maggiori edifici di culto della cristianità bizantina, riedificato da Giustiniano. La grande basilica, secondo la tradizione, fu la prima a contenere le spoglie dell’evangelista, attraendo un gran numero di pellegrini da tutto il Mediterraneo. Straordinarie testimonianze di una grande storia, in cui si intrecciano i successi e lo splendore economico dell’Impero romano, ben incarnati dallo sfarzo della grande metropoli antica, e i primi passi mossi dai primi protagonisti del Cristianesimo. Maria e Giovanni, che a Efeso abitarono, e Paolo. L’infaticabile apostolo delle genti predicò più volte nella città e alla comunità cristiana indirizzò una serie di epistole destinate a lasciare il segno nella storia della fede: le lettere agli efesini.
Meno noti, ma altrettanto suggestivi per il fascino della storia e delle origini del Cristianesimo, sono i siti di Laodicea e di Ierapoli. Quest’ultima – conosciuta per il grande teatro magnificamente conservato e ancor più per le cave di travertino dell’odierna Pamukkale, con le acque termali che sgorgano in un percorso tra le cave sempre pieno di turisti – conserva le rovine della chiesa edificata sul luogo del martirio dell’apostolo Filippo. Dai resti della basilica, estremamente affascinanti per la totale assenza di visitatori, si ammirano le rovine della città antica e le scintillanti cave di travertino, con l’interminabile fila di turisti intenti a bagnarsi i piedi e a scattare fotografie in quel paesaggio lunare, bianco e abbagliante. A pochissimi chilometri sorge l’antica città di Laodicea, un altro gioiello archeologico. Fra i tanti edifici, appena oltre l’ingresso del sito, sorge l’antica chiesa cittadina, scoperta da una decina d’anni. Era la basilica che riuniva la comunità cristiana di Laodicea, una delle sette chiese a cui sono indirizzate le lettere dell’Apocalisse di Giovanni.
Infine Iconio, antichissima città dell’Anatolia, anch’essa visitata da Paolo e sede, ai tempi, di una importante comunità cristiana, tanto da essere una delle poche sedi episcopali del tempo in quelle zone. La città ha attraversato innumerevoli vicende storiche, passando dai bizantini ai turchi, con un importante influenza persiana, per poi passare sotto il meteorico dominio mongolo e finire definitivamente sotto il controllo turco ottomano. Oggi la città di Konya è un’importante metropoli, nota per l’austerità dei costumi dei suoi abitanti. In un paese dapprima forzato a una laicità sconosciuta e innaturale e con un Islam oggi in ripresa, ma a macchia di leopardo, Konya è conosciuta come la cittadella dell’Islam. La differenza culturale rispetto a due città come Istanbul e Ankara è ben rappresentata dalla geografia elettorale. Alle elezioni presidenziali di quest’anno, il candidato dell’opposizione laica e progressista, a capo del partito fondato da Ataturk, ha raccolto la maggioranza dei consensi a Istanbul e nella capitale, superando Erdogan di circa due punti percentuali. Nel distretto elettorale di Konya, invece, Erdogan ha staccato lo sfidante di oltre il 45%. Una città di circa un milione di abitati, con una periferia moderna e un centro dal cuore antico e indomito. La piazza principale, sempre piena di gente, è tra i maggiori centri spirituali dell’intero paese. A fianco della grande moschea, sorge il mausoleo di Rumi, poeta e grande maestro del sufismo, il filone mistico dell’Islam. Quasi un mondo a parte, non sempre visto di buon occhio dai capi spirituali sunniti. Sembra un paradosso. La città più conservatrice del paese è allo stesso tempo la culla e la custode del movimento musulmano più vivace e meno rigido, a volte visto quasi come eretico. La tomba del poeta, imponente, immersa nell’oro e nel verde, tra intarsi di preziose calligrafie scintillanti, è perennemente avvolta da uno sciame di pellegrini. Accanto all’enorme tumulo riposano altri maestri del sufismo, tra i fondatori della confraternita dei celebri dervisci rotanti. Konya è ancora oggi il quartier generale di questi misteriosi mistici danzanti. Le cerimonie, con il tempo, hanno perso il loro carattere originario, per assecondare il gusto per l’esotico dei viaggiatori. Non c’è luogo turistico della Turchia che non ospiti suggestive serate danzanti. Nella città di Rumi, i veri dervisci, autentici membri della confraternita sufi, si riuniscono due volte a settimana, per regalare alla città e ai visitatori – non molti a dire il vero, se paragonati ad altri luoghi del paese – la visione della loro ascesi. La danza dei dervisci è infatti una vera e propria cerimonia religiosa, una forma di ascesi scandita da fasi dal preciso significato teologico e simbolico. La rotazione continua porta il derviscio a uscire da sé stesso per sperimentare la totale unità con Dio. È la sete spirituale a muovere il derviscio e a creare la sua danza. Nelle sue poesie, Rumi scrive che «l’uomo di Dio è, senza vino, ubriaco, l’uomo di Dio è, senza cibo, già sazio […] l’uomo di Dio è re sotto il saio, l’uomo di Dio è, in diroccate rovine, tesoro»4. Da oltre sette secoli, il cuore della città danza per arrivare al cielo, vicino alla tomba del suo grande poeta.
Oltre la piazza, Konya vive la sua dimensione più concreta e terrena. Come in molte città islamiche, il grande bazar si estende per un intero quartiere. Rispetto all’immenso gran bazar coperto di Istanbul, una meraviglia architettonica che lascia un po’ delusi per la merce, il mercato di Konya convince per la sua autenticità. La città vive nel suo mercato. I vicoli tra le case storiche si trasformano nel palcoscenico delle tante compravendite giornaliere. Si incrociano tanti volti che si fissano nella memoria e nell’obiettivo. Un anziano circospetto, con una stupenda barba bianca, davanti a una gioielleria, un rilassato fumatore tra le vie del centro e un gruppo di fedeli all’uscita dalla moschea (Figure 3, 4, 5). Al richiamo del muezzin, le eleganti moschee del centro e le vie del mercato sono come vasi comunicanti, con un immediato travaso di gente dai banchi del bazar alle tante preghiere della giornata.
Lo stesso magico rapporto fra grandi moschee e immensi bazar, con un gioco di rapidi passaggi da un luogo all’altro, è la cifra distintiva di Bursa, la prima capitale ottomana. Le storiche moschee e i cortili in pietra dei bazar non hanno nulla da invidiare, per bellezza architettonica e vita, ai più celebri monumenti di Istanbul. Trovarsi di venerdì all’interno della grande moschea Ulu Camii, inondati dal fiume dei fedeli in ginocchio, è un’esperienza immersiva. Le litanie dell’imam dirigono le rapide e infinite genuflessioni; sulle pareti meravigliose calligrafie nere (Figura 6). La possente Ulu Camii è un maestoso edificio con venti cupole, un’architettura unica. A volere la sua costruzione fu il sultano Bayezid, il leggendario condottiero turco che inflisse pesanti sconfitte all’Occidente cristiano, tanto da far temere imminenti e irreversibili invasioni nel cuore dell’Europa. Il sultano promise la costruzione di venti moschee, se fosse riuscito a sbaragliare le forze crociate messe insieme dai vari sovrani europei. La promessa era difficile da mantenere e la soluzione di compromesso fu l’edificazione di un’unica grande moschea, ma con venti cupole. Soltanto l’irresistibile Tamerlano riuscì a mettere fine alla parabola di Bayezid, lasciando ai bizantini un ultimo respiro di pochi decenni, prima della definitiva capitolazione di Costantinopoli. Bursa, antica capitale e città moderna e dinamica, è il luogo da cui è partita la grande riscossa che ha portato alla nascita dell’Impero ottomano. Tutto il contrario dell’altra capitale, di quella città mondo che è Istanbul.
Esplorando la capitale
Da un secolo è Ankara a potersi fregiare del titolo di capitale, la città in cui si conclude questo racconto di viaggio in ordine sparso. Sconfinata e caldissima, la città conserva la vecchia cittadella, un paesino arroccato su una formazione rocciosa. Le case recentemente restaurate hanno fatto perdere il fascino al vecchio quartiere, ma permane intatta la suggestione di questo piccolo villaggio rialzato, abitato da gente umile apparentemente fuori dal tempo, da cui si ammira la vasta città moderna, con i grandi viali e i grattacieli. Si intravede in lontananza anche il monumento più rappresentativo e visitato: il mausoleo di Atatürk. Il grandioso tempio squadrato è l’anima della repubblica turca. L’architettura e i decori del mausoleo e dei viali circostanti sono un richiamo alla geometria degli stili classici, con qualche accenno agli antichi popoli dell’Anatolia. La costruzione rispecchia fedelmente il progetto di Atatürk, fatto di riforme, laicità e modernizzazione. Il mausoleo è un unicum nel panorama dell’architettura ottomana e turca, esattamente come le riforme di Atatürk sono apparse un corpo estraneo nella tradizione islamica e ottomana.
L’uomo che ha abolito il califfato è sepolto in un faraonico mausoleo degno del fondatore di una nuova religione. Sembra una contraddizione, ma non lo è affatto. La laicità ha bisogno delle sue liturgie, spesso riprese dalle religioni che ci si è proposti di abbattere. Il pellegrinaggio alle spoglie del fondatore della Turchia moderna non è poi così diverso dallo sciamare dei fedeli davanti alla tomba di Rumi. Oggi il valore simbolico di Atatürk è fuori discussione, un patrimonio comune di tutti i turchi. Non c’è ufficio pubblico o museo che non ne abbia un grande santino appeso. Per le strade campeggiano numerosi manifesti con lo sguardo fiero del padre della patria. Capita spesso di trovare questi grandi cartelloni affiancati dai poster elettori di Erdogan, a voler segnare una continuità davvero non semplice da cogliere. Le società vivono ampiamente della sintesi di percorsi in conflitto, dipinti in continuità per tenere insieme i tanti percorsi di un popolo. L’immagine dei grandi poster e il mausoleo di Atatürk sono l’emblema della traiettoria in corso della società turca. Un percorso affascinante, che lascia indifferenti soltanto gli autentici padroni del paese: i coccolatissimi gatti. I felini, fieri e sicuri, sono onnipresenti nelle strade e persino all’interno delle moschee, veri talismani di tutte le componenti della società turca.
1 O. Pamuk, Istanbul, Einaudi, Torino 2003, pp. 229-230.
2 G. Agamben, Quel che ho visto, udito, appreso…, Einaudi, Torino 2022, p. 24
3 Ivi, p. 10
4 Rumi, Poesie mistiche, a cura di Alessandro Bausani, Milano Bur, 2022, p. 47