Ci sono circa ventinove milioni e mezzo di italiani che vivono a testa in giù. Già, perché in Argentina, ossia nell’emisfero sud del mondo – quello che appunto vive a testa in giù, come scriveva l’argentino Quino, il padre di Mafalda – circa il 62,5% dei 46 miloni di abitanti ha sangue italiano. La quasi totalità di essi ha un amore viscerale per tutto ciò che è tricolore, ma la maggioranza di loro non parla più l’idioma di Padre Dante e associa l’Italia a un affetto ancestrale o alla cucina della nonna e al suo dialetto. Noi qui siamo los tanos, gli italiani. E in realtà los tanos sono un’etnia a parte, mai diventati del tutto spagnoli e non più del tutto italiani. Sarà anche questa una delle vene di tristezza che danno anima al tango?
Circa tre anni orsono, per motivi di lavoro, con una parte della famiglia ci siamo trasferiti a Buenos Aires, 11.185,3 chilometri di trasloco. Sembra che siamo venuti a vivere in “Latinoamerica”, ma non è del tutto esatto. Lo è dal punto di vista strettamente geografico, ma dal punto di vista culturale e sociale è molto diverso.
E poi, si fa presto a dire Latinoamerica: noi europei non siamo assolutamente attrezzati a comprendere una realtà così ampia, a partire dalle dimensioni. Di fatto, l’America Latina è lunga quanto la distanza da Milano a Perth, in Australia: per capirci, se ci fossimo trasferiti a Oslo saremmo a 1.610 chilometri da casa, distanza che qui è considerata decisamente banale. Per andare a sciare facciamo più strada.
E, ciò che più conta, l’Argentina non è esattamente America Latina, se non per il fatto che si parli una delle infinite varianti dello spagnolo. Di fatto, il 90% della popolazione è di origine europea, il che è un unicum non solo in Sudamerica ma nel mondo intero. Un detto popolare dice che un argentino è un italiano che parla spagnolo, si veste come un inglese e vorrebbe essere un francese. E, come spesso accade, i detti hanno un consistente fondo di verità.
I legami con l’Italia
Quando l’Argentina ottenne l’indipendenza, nel 1810, pare che intendesse adottare l’italiano come lingua principale, sia per l’influsso del sangue sia per marcare ancor più la distanza da Madrid. Uno dei Padri della Patria è il General Belgrano, originario di Oneglia, il che è significativo. Ahinoi, però, l’italiano non esisteva ancora, e non fu possibile trovare un accordo su quale dei dialetti scegliere (accordo che non fu semplice nemmeno in Madrepatria). E quello della lingua è ancor oggi uno snodo cruciale dell’identità degli italiani di Argentina, sul quale torneremo. Lo spagnolo che si parla qui è il “Castellano Rioplatense”, dove Castellano si pronuncia “castesciano”, molto italicamente! La fonetica sembra proprio tricolore, i suoni più tipicamente spagnoli sono stati modificati esattamente come li pronunciamo noi quando ci sforziamo di parlare da don Chisciotte. Il vernacolo porteño, cioè il creolo portuale di Buenos Aires, è il “Lunfardo”, il cui nome viene da “lumbard”, e la zona del porto, la Boca, porta i colori di Genova. I tifosi del Boca Junior si chiamano Xeneises e mangiano fainà. Per non dire che il lavoro si chiama laburo e non trabajo e la birra “birra” e non cerveza.
Diceva però un gran filologo, Viktor Klemperer, che la lingua è più del sangue. E così, già la generazione successiva a quella dei nostri immigrati cominciava a perdere la concretezza e la quotidianità dell’essere italiani, per finire assimilata in una cultura che, per altri versi, era a sua volta influenzata dall’italianità. La nostra insegnante di “castesciano” si chiama Bianchi, che qui diventa “Bianci”, nipote di italiani. Con un sorriso venato di nostalgia, ci racconta che sua nonna parlava solo italiano e viveva e cucinava come in Italia. Già la sua mamma sapeva fare ben poco, tra i fornelli, e capiva l’italiano ma non lo parlava. Lei, ovviamente, non lo parla e cucina (molto poco) argentino…
Complessivamente, anche il rapporto con la fede soffre di questa assimilazione a una cultura altra, ma con significative eccezioni. Per esempio, intorno alla chiesa di San Michele Arcangelo ci sono tanti discendenti di italiani i cui paesi di origine hanno San Michele come Patrono, e continuano a celebrarne i riti.
Il passaporto italiano è un tesoro
L’Argentina ha la rete consolare italiana più importante del mondo intero. Per dare un’idea, gli Stati Uniti (che qui non si chiamano genericamente “America” come da noi, per ovvi motivi), con 332 milioni di abitanti, hanno dieci Consolati italiani, mentre l’Argentina, con 46, ne ha nove, che però fanno da soli il 19% di tutte le pratiche consolari del mondo!
Nostro figlio più piccolo, quindici anni, viaggia da solo avanti e indietro, ed è tornato l’ultima volta a fine febbraio. La sua ultima telefonata al rientro, già a bordo dell’aereo, è stata molto significativa: “Mamma, sono già in Argentina! Qui tutti hanno il passaporto italiano, e nessuno parla l’italiano!”. Quasi un milione di argentini ha la cittadinanza italiana, con relativo passaporto che ostenta con orgoglio, ma pochissimi di loro parlano la nostra lingua, tanto che ora le Autorità si sono decise a chiedere una prova di lingua prima di concedere la ciudadania. Di solito, appena qualcuno sa che sei italiano inizia a parlarti del suo abuelo tano, arrivato qui tra i primi dell’Ottocento e la fine della Seconda Guerra Mondiale, e poi prosegue secondo le due alternative possibili: o dicendoti che “tiene la ciudadania” o che “tiene el tramite para sacar la ciudadania”, ossia ha cominciato le pratiche per averla.
In questo secondo caso, sottintesa o esplicita, c’è la domanda seguente, ossia se conosci qualcuno per “conseguir turno” o per “agilizar el tramite”: non serve tradurre, vero? Il più diffuso status symbol argentino è, infatti, il pasaporte italiano, oggetto di venerazione un po’ ambigua. Da un lato c’è una carica affettiva quasi sempre genuina e dall’altro la preoccupazione di avere una via di scampo dall’inflazione al 276,2% annuo, per sé o per il futuro dei propri figli. Qualche giorno fa, incredulo e deluso, un amico che ha la ciudadania mi ha confessato che i due figli non vogliono saperne di trasferirsi in Italia per frequentare l’università. Era sconsolato e non riusciva a spiegarsi questa boludez (nemmeno qui serve tradurre letteralmente…).
Le difficoltà degli ultimi anni
A dire il vero, purtroppo, non sarebbe per niente facile frequentare l’università in Italia, per un ragazzo argentino medio. Il nuovo Presidente, il leonino Milei, ha citato il dato anche nel suo discorso di insediamento: L’Argentina occupa il 65° posto, su 81, nelle prove internazionali di valutazione del livello culturale. Nessuno studente argentino si è piazzato nel livello “alto”, né in matematica né nelle altre aree di test. Il Paese con il maggior numero di premi Nobel del subcontinente nel Novecento ha oggi quasi due terzi dei suoi figli che non sono in grado di compiere le quattro operazioni e comprendere un testo scritto di media complessità.
Quello che fu uno dei modelli di insegnamento universale più avanzati del mondo all’inizio del secolo scorso, è precipitato al di sotto della soglia dell’accettabile. È una tristezza infinita, specchio di una Nazione che non merita di essere defraudata della sua dignità e del suo valore come lo è stata negli ultimi trent’anni (per non dire un secolo). È un Paese meraviglioso, vivace, creativo, che possiede risorse infinite, ma che è in caduta libera.
A proposito del nuovo Presidente, molti amici ci chiedono notizie, dato che la stampa italiana lo descrive come un mezzo matto. In effetti il tipo è originale, ma una vena di follia devi averla, se intendi affrontare una situazione schizofrenica come quella argentina. E poi, il vero folle non sarebbe il Presidente eletto ma il suo sfidante: Sergio Massa, il Ministro dell’Economia del Gabinetto precedente, ossia uno degli autori di quel 276,2% di inflazione nel quale navighiamo quaggiù! E davvero non si riesce a capire come abbiano fatto, ad affondare un Paese che è uno dei principali produttori mondiali di grano, soia e carne, e che possiede infinite meraviglie, oltre alle riserve più grandi a oggi note di litio, di gas e petrolio non convenzionali.
Dalla giungla all’Antartide
La prima, grande meraviglia è quella di “Sora Madre Terra”, come diceva Frate Francesco. E Sora Terra (non “Pachamama” come qualcuno da queste parti la vuole chiamare) qui è quanto mai varia e generosa.
L’Argentina è l’unico grande Paese del mondo che non sia esteso longitudinalmente ma sulla latitudine. Il Canada, per capirci, viaggia su un ristretto fascio di paralleli, il che comporta che dall’Atlantico al Pacifico incontriamo le stesse splendide sequoie e gli stessi enormi orsi. L’Argentina inizia a nord con la foresta amazzonica e finisce a sud con la città più meridionale del mondo: dai tucani ai pinguini.
Dalle incredibili cascate di Iguazù, condivise con il Brasile in una lussureggiante foresta pluviale, a Bahia Lapataia, dove c’è il cartello “Fin del Mundo”: più a sud, solo l’Antartide. Sono circa tremilasettecentoquindici chilometri, da Aosta a Teheran. In mezzo c’è di tutto, foreste e deserti, saline preistoriche e ghiacciai. I tremilasettecento chilometri di Cordigliera andina, mi diceva un amico Ufficiale degli Alpini locali, racchiudono nove tipi di montagna diversi, cui equivalgono nove specialità delle truppe da montagna, addestrate sul modello della Scuola Militare Alpina di Aosta, che frequentò il Generale Peron che la “importò”.
Dagli altipiani desertici alle foreste alpine, ai ghiacciai, fino ai seimilanovecentosessantuno metri dell’Aconcagua. Salinas Grandes, un immenso lago preistorico ricoperto di sale, è poco più piccola dell’Umbria, ed è un luogo unico e magico. Ci si arriva dopo aver attraversato in macchina un passo a quota quattromilacentosettanta e aver contemplato estaticamente una catena montuosa di qualche centinaio di chilometri, interamente fatta a “V” di quattordici colori diversi. Il belvedere è a quota quattromilatrecentocinquanta. Si sbuffa come dei mantici, per l’effetto della puna, la sindrome della quota, che lassù combattono masticando foglie di coca col bicarbonato di sodio, col risultato di avere in molti una guancia a forma di pallina da golf.
L’importanza di stare insieme
E a proposito di abitudini, due sono davvero argentine doc, ed entrambe dal carattere conviviale. Da veri italiani e oltre.
Una è il matè, una specie di te amaro, fatto dentro un recipiente di legno e cuoio (il matè, appunto), e sorbito con una specie di cannuccia di metallo, la bombilla (pronuncia di ascendenza italiaca=bombiscia). Si aggiunge acqua calda man mano che si beve, e ce lo si passa tranquillamente tra tutti i presenti per ore intere. Tanto è uso berlo tutti insieme che il verbo che si usa non è “bere” il mate ma compartir matè.
E l’altra è l’asado, che somiglia poco a una nostra grigliata per più di una ragione. La prima è la materia base: la carne argentina! Il giorno stesso del mio arrivo, un caro amico mi ha portato a mangiare un asado, e mi sono chiesto cosa avessi mangiato in vita mia al posto della carne. Un’esperienza estatica. Qui le vacche mangiano erba in pianura, quindi esercizio fisico senza sforzo e alimentazione perfetta e naturale. I tagli sono diversi dai nostri, e non sarebbe male importare questo sapere, fonte di delizia. La seconda è che i pezzi di carne si cuociono interi, con una raffinata tecnica che rasenta l’arte. E la terza, fondamentale, è che l’asado è l’incontro, l’ammissione in casa, la condivisione – non solo materiale – del piacere di stare insieme, magari con un eccellente calice di Malbec tra le mani.
L’asado è anche linguisticamente molto argentino. Di per sé il termine indica un taglio di carne specifico, il costato della vacca. Da noi ci si fa il brodo, qui una pietanza gourmet. Però “asado” è anche l’evento collettivo del mangiarsi insieme una “grigliata” spettacolare. Una sineddoche, una parte per il tutto.
Forse, la sineddoche è proprio la via per comprendere questo Paese: non potendolo descrivere tutto insieme, dobbiamo prenderne una parte – delle innumerevoli possibili – e darle il nome di Argentina. E poi gustarci la sineddoche successiva.