Carla Boroni (Berzo Demo, Brescia 1959) è una scrittrice e giornalista. Da marzo 2015 è professoressa associata di Letteratura Italiana Contemporanea all’Università Cattolica di Brescia. Collabora a riviste specializzate di critica letteraria (quali “Otto/Novecento”) e di letteratura e didattica. Pubblichiamo qui l’intervista con Silvia Stucchi.
1. Partiamo dall’ultimo nato nell’“officina Boroni”, Professoressa. Per un’ecologia della letteratura italiana contemporanea. Percorsi e temi della letteratura italiana dal Decadentismo ai giorni nostri (Gammarò, Milano 2024, pp. 406, € 21) ha un titolo insolito e, direi, persino provocatorio: ci spiega la genesi, del titolo, e, soprattutto, del libro?
Con il termine “ecologia letteraria” mi riferisco a un approccio critico che considera la letteratura in relazione all’ambiente e all’ecosistema culturale in cui si sviluppa. Questo punto di vista consente di capire come opere letterarie e scrittori interagiscano con l’ambiente sociale, politico e culturale circostante, riflettendo e influenzando al contempo le dinamiche di quel contesto. Quanto alla ricerca di una definizione di “modernità letteraria” nel primo capitolo, questa scelta deriva dalla volontà di contestualizzare l’opera e stabilire i parametri che definiscono il periodo storico e culturale considerato “moderno” nella letteratura italiana contemporanea.
2. Il suo volume è articolato in due parti: può dirci qualcosa a proposito del concept che ha guidato il suo lavoro e quale metodo ha seguito?
Nella prima parte vengono tratteggiate le figure più significative del Novecento letterario italiano, fino ai nostri giorni, sia nella loro singolarità, sia nei legami con i principali movimenti culturali, privilegiando i poeti ai prosatori. Nella seconda parte sono invece individuati e proposti alcuni temi e argomenti sui quali si è esercitata la scrittura novecentesca, come, per esempio, la relazione che intercorre tra il linguaggio infantile e il linguaggio poetico, il rapporto tra letteratura e disabilità, l’importanza della letteratura gialla ai fini del superamento delle istanze delle avanguardie storiche (soprattutto la Neoavanguardia), il confronto tra scrittura e mondo dello sport, sia come narrativa, sia come capacità del giornalismo sportivo di assurgere a dignità letteraria.
3. Il saggio è un corposissimo e ricchissimo volume con percorsi utilissimi alla prassi scolastica, perché, in barba a tutte le raccomandazioni, spesso l’ultimo autore che si tocca al quinto anno della secondaria di secondo grado è Montale, e, forse, qualche volta, Saba. Chi sono, secondo lei, i grandi “trascurati” nella prassi dell’insegnamento nella scuola superiore?
Mi verrebbe da rispondere: tutti quelli che ho preso in considerazione. Ma se proprio devo fare qualche nome, allora dico Gozzano, Ungaretti, Pasolini, Caproni e tanti che ho conosciuto e frequentato come Giovanni Giudici, Raffaello Baldini, Edoardo Sanguineti, tutti conosciuti ai tempi del “Premio Gandovere Franciacorta”, dei quali poi sono rimasta amica.
4. Uno dei capitoli più corposi è dedicato ai Crepuscolari, colti “tra simbolismo e ironia”. Ci dica tre motivi per cui oggi non possiamo fare a meno di leggere Gozzano che, personalmente, mi piace moltissimo e trovo straordinariamente moderno nella sua leggerezza malinconica.
Perché, come è stato detto molto bene da Cecchi, Mengaldo e altri suoi numerosi lettori d’eccezione, si resta ancora oggi stupiti e ammirati di fronte alla capacità gozzaniana “di trasformare in autentica e fresca poesia una materia che è in sé interamente falsa, intellettualistica”. Scriveva versi magnifici, senza preoccuparsi sempre delle formalità metriche, ma usando parole sorprendenti e scelte con la cura di chi possiede un vasto repertorio lessicale classico e popolare e, nel contempo, incentrato sull’amore e sulla sofferenza, sull’elogio della semplicità e sul rifiuto delle convenzioni. È ironico, malinconico, grandissimo.
5. Sono molto interessanti gli intrecci e le interconnessioni che individua tra autori e temi che, oggi, sono di grande attualità. Mi riferisco, per esempio, a letteratura e disabilità oppure linguaggio infantile e linguaggio poetico. Spesso sono argomenti che, anche per motivi di tempo, vengono demandati allo studio delle Scienze Umane…
Sono temi estremamente attuali e interessanti. Molti autori del Novecento hanno affrontato il tema della disabilità, in modi diversi. Riproporlo in quanto fatto letterario contribuisce enormemente a promuoverne la comprensione. Il legame tra linguaggio infantile e linguaggio poetico è un rapporto che mi ha sempre affascinato, forse anche perché insegnando a Scienze della Formazione Primaria questo affondo è inevitabile. Il linguaggio infantile è spontaneo, libero e ricco di immaginazione. I poeti hanno spesso cercato di catturare questa spontaneità e libertà nel loro lavoro. Ad esempio, poeti come Palazzeschi e, in molte occasioni, Ungaretti hanno utilizzato uno stile poetico che ricorda il linguaggio infantile, con giochi di parole, rime, filastrocche e un approccio giocoso alla lingua.
Si tratta di esplorare la diversità umana e la ricchezza delle espressioni, sia attraverso la lente della disabilità sia attraverso la purezza del linguaggio infantile trasposta nella poesia. Il punto di vista ecologico consente alla letteratura di poter esplorare e comprendere meglio il mondo che ci circonda.
6. Questo libro, lei ha detto, è stato pensato per i suoi studenti universitari, ma il Novecento così raccontato farebbe bene anche ai ragazzi dell’ultimo anno di liceo.
Insegnare è il mestiere più bello del mondo, io sono partita dalle elementari per arrivare all’università, ma la magia è sempre la stessa, piccoli o grandi che siano i tuoi interlocutori.
Il mio desiderio è che questo libro possa risultare utile a tutti, ma soprattutto ai fini dell’insegnamento universitario per i contenuti letterari, ma anche pedagogici che offre (i miei alunni diventeranno maestri e utilizzeranno questi materiali).
La lettura ecologica dell’ambiente letterario italiano contemporaneo deve riuscire a fare in modo che tale ambiente possa diventare un po’ più comprensibile nei termini del suo legame con la vita.
7. Un tema inconsueto è quello della favola nel Novecento: apparentemente, il XX secolo, cinico, ipertecnologico e disincantato non ha alcuna attinenza con le favole. Ammetto la mia ignoranza, perché io ricordavo solo le “Favole della preistoria” di Moravia e qualche esilarante esempio di beffarda parodia freudiana in Svevo (“La madre”), e ovviamente Dino Buzzati e invece molti grandi se ne sono occupati: come mai, secondo lei?
La favola del Novecento mette in scena una società contraddittoria e in piena crisi di valori. Dal punto di vista narrativo è molto più complessa di quella antica e non è quasi mai un testo semplice, spesso richiede la lettura e la comprensione di diversi livelli di significato. Il nostro tempo non ha perduto il gusto della favola, ma vi ha inserito una più acuta valenza critica e simbolica tutta da scoprire. Le considerazioni etiche, le allusioni politiche e la satira di attualità compaiono oggi nella favola con l’intento di perseguire lo scopo per cui è nata: ammonire divertendo.
Ci sono pezzi da “novanta” della letteratura contemporanea italiana, insospettabili intellettuali impegnati a scrivere favole. È importante per un maestro far rivivere la favola e la fiaba del passato attraverso alcuni autori del Novecento, quali Palazzeschi, Folgore, Gadda, Gatto, Sciascia, Loria, Morante, Celestini, solo per citarne alcuni. Tutti scrittori che si sono dedicati alla favola perlopiù con intenti di rinnovamento (soprattutto) linguistico.
8. In passato, lei si è occupata molto di Ungaretti: ci dice, sinteticamente, in che cosa sta la sua grandezza, e perché dobbiamo continuare a leggerlo?
La grandezza di Ungaretti risiede nella sua capacità di condensare in poche parole un’intensa carica emotiva e un profondo significato universale. Le poesie sono caratterizzate da una straordinaria sintesi linguistica, in cui ogni parola è essenziale e carica di molteplici significati.
Ungaretti ha il dono di cogliere l’essenza delle cose e delle esperienze umane, esprimendo con poche parole concettualità complesse e profonde riflessioni sulla vita, sull’amore, sulla morte e sull’esistenza stessa. La sua poetica si distingue per una profonda interiorità e una sensibilità estrema, che si manifestano attraverso immagini suggestive ed evocative.
Dobbiamo continuare a leggere Ungaretti perché le sue liriche rappresentano un punto di riferimento fondamentale per comprendere la complessità dell’esperienza umana. Le sue opere sono un patrimonio culturale prezioso che ci invita a riflettere sulla condizione umana e a esplorare i misteri dell’esistenza attraverso la bellezza della parola poetica.
Ungaretti, come altri poeti contemporanei, ma meglio di tutti, ha saputo ridare alla poesia italiana del Novecento «quel nulla / d’inesauribile segreto».
9. Adesso una domanda difficile: ci indica un aggettivo solo per riassumere la sua idea di alcuni grandi nel Novecento? D’Annunzio, Ungaretti, Montale, Saba, Buzzati, Gozzano.
Questa dovrebbe essere una risposta composita, ma se mi attengo a un aggettivo direi “preziosi”.
10. Nel Novecento industriale, nel trionfo della società di massa, lei dedica un capitolo, anche questo una scelta sorprendente, alla poesia dialettale: perché viene coltivata nel Novecento? E perché è importante conoscerla?
La letteratura dialettale ha conosciuto nel Novecento un processo di accelerazione straordinario, offrendoci un singolare paradosso: il dialetto, in crisi come lingua dell’uso comunicativo, è diventato uno strumento d’espressione poetica di nuova intensità e di originali risorse; la poesia in dialetto ha dunque conosciuto una feconda ripresa, tanto da costituire un singolare caso della letteratura contemporanea, proprio quando le parlate locali hanno subito un regresso senza precedenti e irreversibile.
La riscoperta del particolarismo culturale risponde in altre parole al bisogno di recuperare la propria identità messa in crisi dalla standardizzazione linguistica nazionale e internazionale. Il dialetto si configura così come lingua della durata e della resistenza immune dal processo di rapido invecchiamento dei materiali linguistici contemporanei e capace al tempo stesso di infrangere il codice rigorosamente monolinguista della consuetudine letteraria: all’italiano appiattito e incolore della conversazione quotidiana e a quello ormai usurato e convenzionale della tradizione artistica si oppone un linguaggio antieloquente e inedito, più espressivo e spontaneo, in grado di valorizzare, e non di limitare, la creatività individuale.
Osserva in proposito Brevini: «Ricorrere al dialetto per il poeta significa oggi rifiutare una lingua avvertita come svuotata, irreale, massificata, insufficiente alla scrittura, formata, per rifarsi alla celebre distinzione leopardiana, più di “termini” che di “parole”. Un tempo la crisi riguardava la lingua letteraria, sospinta a una sua estrema estenuazione a cura dell’ermetismo; oggi riguarda la lingua d’uso, formulistica, piena di stereotipi, avvilita e inespressiva a causa di una troppo repentina immissione nei canali della comunicazione di massa. Ad essa il poeta dialettale oppone le concrete, evocative sonorità della sua parlata.
Si potrebbe dire che nel dialetto si esprime una profonda ansia di corporeità linguistica, di fronte all’astrattezza, all’artificio, alla derealizzazione di quella specie di protesi comunicativa che secondo taluni è divenuto l’italiano veicolare».
11. Di recente, lei ha curato e rieditato (con l’aggiunta di nuovi testi) anche la pubblicazione dei racconti scritti per il “Giornale di Brescia” da Enrico Morovich (I racconti per il “Giornale di Brescia”, Compagnia della Stampa – Massetti Rodella Editori): un autore poco noto, decisamente, ma molto interessante. Come le è venuta l’idea? Come descriverebbe questi racconti? A me ha divertito moltissimo I piccoli elefanti. ci trovo un po’ di quel gusto dell’assurdo che si ritrova anche ne Il bello viene dopo di Montale, sempre ambientato in un ristorante.
Enrico Morovich collaborò con il “Giornale di Brescia” in un periodo di relativa marginalità letteraria che possiamo grosso modo collocare tra il 1946, l’anno del prestigioso inserimento nell’antologia Italie Magique curata da Gianfranco Contini e il 1987, anno che, grazie all’articolo che Leonardo Sciascia gli dedicò su “Tuttolibri”, lo vide ritornare sulla ribalta letteraria nazionale.
In realtà la “riscoperta” da parte di Sciascia dell’opera di Morovich non arrivò dal nulla. In effetti, alla fine degli anni Ottanta l’interesse per l’opera di Morovich da parte della critica, sia di quella accademica, sia di quella militante, è sempre più intensa, e di Morovich si occupano via via, fra gli altri, Giorgio Barberi Squarotti, Giorgio Baroni, Ines Scaramucci, Angelo Marchese, Lucifero Martini, Gilbert Bosetti dell’Università di Grenoble, Rinaldo Derossi, Patrizia C. Hansen, Bruno Maier, Stefano Verdino e, ripetutamente, Bruno Rombi e Francesco De Nicola.
Ed è proprio De Nicola a innescare il “caso Morovich” rispondendo sulla terza pagina di “Il Lavoro” di Genova del 1° luglio 1987 ad un articolo di Leonardo Sciascia, apparso su “Tuttolibri” della settimana precedente.
Nell’articolo dedicato a Mario La Cava, Sciascia, ripensando con ammirazione alle sue letture di “Omnibus”, ricorda i brevissimi metafisici racconti di Enrico Morovich, scrittore ormai da anni in silenzio e ingiustamente dimenticato. De Nicola gli fa notare che Morovich non è stato in silenzio in tutti quegli anni, se è vero che proprio in tempi più vicini a noi ha pubblicato diversi volumi e che di lui si sono occupati, oltre al maggior storico della letteratura italiana contemporanea Giuliano Manacorda, molti altri studiosi e che a lui è stata dedicata la prima monografia “scritta con ampiezza di informazioni…” da Bruno Rombi.
Sciasci e la ribalta
Ciò basta a suscitare l’interesse di Leonardo Sciascia che, ricevute da chi scrive [Bruno Rombi] le ultime opere di Morovich insieme alla sua monografia, gli dedica su “Tuttolibri” del 17 ottobre 1987, un intelligente articolo pubblicato accanto all’intervista dell’inviato di “La Stampa” Nico Orengo.
Enrico Morovich negli ultimi anni ricevette vari premi e riconoscimenti. Fu finalista al Premio Strega nel 1991 con il romanzo Piccoli amanti. Nel 1993 diede alle stampe il volume di ricordi Un italiano di Fiume.
Conclusa la ricerca e ultimata la raccolta, tra emeroteca cittadina e archivio del “Giornale di Brescia” e fatta la trascrizione attenta di tutti i racconti, ho ritenuto utile, al fine di una lettura più organica e ragionata dell’intera raccolta, individuare e definire alcune caratteristiche dei vari racconti che raggruppano tematiche in un qualche modo omogenee e ricorrenti. Tali caratteristiche sono, naturalmente, frutto di una scelta e di una suddivisione che vuol essere solo indicativa e intendono restare nell’ambito di una semplicissima proposta di lettura.
Tali caratteristiche tematiche che possono essere riscontrate nei racconti di Morovich sono le seguenti: l’autobiografia, la commedia umana, la metafora, la fantasia e il sogno, la descrizione psicologica e sociale. Tutto ciò tenendo ben presente anche l’osservazione di Bruno Rombi dove sostiene che “la scrittura moraviciana è essenzialmente simbolica (come diceva lei) e va analizzata su un triplice piano di lettura: autobiografico, storico e metaforico. E la sua avventura letteraria va intesa pertanto come la metafora di un’epoca, ed Enrico Morovich è un personaggio che si fa interprete, narrando sé stesso, del suo tempo.
12. Adesso, una domanda in parte cattiva: un autore sopravvalutato nel Novecento, soprattutto poetico, secondo lei? E un autore, invece, non sufficientemente valorizzato nella prassi didattica?
Camillo Sbarbaro, per la seconda parte della domanda: straordinario a cui debbono molto molti; per la prima parte, quella cattiva, mi verrebbe da risponderle: ce ne sono tanti (e spesso pluripremiati).