La mostra allestita al British Museum – Legion, life in the Roman army: chiuderà il prossimo 23 giugno – trasmette al visitatore sin dal primo momento il senso di potenza del complesso militare delle Legioni che per mezzo millennio consentì all’Urbe di controllare e difendere i propri dominî nel mondo. Nella loro massima espansione, sotto Traiano, questi andavano dalla Britannia al Mar Rosso, dall’Iberia alla Mesopotamia, contavano sessanta milioni di sudditi e un esercito permanente di trecentomila uomini (piccolo per gli standard moderni, ma tra i maggiori dell’antichità).
Un busto giovanile di Augusto accoglie i visitatori. Fu lui a dare avvio nel 23 a.C. – dopo anni di tumulti e guerre seguiti alla morte di Cesare – alla riorganizzazione delle armate su basi stanziali e professionali: sparse per il Mediterraneo, si contavano allora quarantacinque legioni, presto ridotte a ventotto. Dopo il disastro di Teutoburgo del 9 d.C., dove i germani “polverizzarono” le tre unità transrenane di Publio Quintilio Varo, le venticinque rimaste costituirono per decenni la forza-base dell’esercito, stanziate tutte nelle province, nessuna nella Penisola. Il loro numero giunse a trena con Traiano († 117), a trentatré con Settimio Severo († 211) ma il continuo aggravarsi della situazione ai confini ne richiese la costituzione di altre.
L’esposizione copre dei secoli cruciali per Roma, sino al 238, anno di morte di Massimino il Trace, noto anche per l’eccezionale statura, 2 metri e 40 centimetri, il primo peregrinus (non-romano di nascita) a vestire la porpora imperiale.
Chi combatteva nelle legioni
Il servizio nelle legioni, ricordiamo, era aperto solo ai cives optimo iure (cittadini con pieni diritti), ovvero agli italici e a quanti vivevano in colonie di diritto romano. Ma l’attitudine di questi ultimi verso la vita militare scemò presto, compensata dalla promessa della cittadinanza ai “barbari” all’atto dell’arruolamento. Con Caracalla, nel 212, questa fu estesa a tutti i nati liberi dell’Impero.
L’organico di una singola unità variava da quattromila a seimila uomini, integrato da un’ala di centoventi cavalieri in età augustea, rafforzata nel III secolo. La disciplina ferrea e il costante addestramento rendevano il legionario un combattente polivalente e la legione un ensemble specializzato, capace di fabbricare le proprie armi, di costruire strade e forti: da molti è ritenuta la più efficace unità tattica da combattimento dell’antichità.
La ferma durava venticinque anni e solo un comportamento disonorevole, le malattie o la morte potevano interromperla. Le possibilità di arrivare alla pensione si aggiravano sul 50%, ma una volta ricevuto il diploma bronzeo attestante l’honesta missio (l’onorevole congedo) l’ex-legionario poteva godere i frutti dei suoi sacrifici: una buonuscita in denaro (nummaria missio) o in terreni (agraria missio), incarichi nella comunità e trasmissione della cittadinanza ai figli futuri (sotto le armi, alla truppa non era consentito sposarsi). Oltre a ciò, eventuali risparmi e il bottino accumulato negli anni.
Il legionario Terentianus
Nel corso della mostra, la figura di un legionario realmente esistito “accompagna” i visitatori: è l’egiziano Claudius Terentianus, nato a Karanis, nell’oasi di al-Fayyūm, che servì sotto Traiano e Adriano. Ancorché figlio di veterano e civis Romanus di diritto, egli fallì il primo approccio alle legioni: si arruolò perciò, poco più che adolescente, nei “fanti di marina” (ausiliari peregrini con un soldo inferiore, duecentocinquanta denarii annui invece dei trecento dei legionari) e nel 114 fu inviato in Oriente contro i Parti. Mai, a ogni modo, perse la speranza di entrare nelle legioni e alla fine riuscì nell’intento.
Terenziano sapeva scrivere, cosa notevole per quei tempi, e alcune sue missive al padre, vergate su papiro e preservate dal clima del deserto, offrono passaggi significativi della vita sotto le aquile romane. In esse, il giovane chiede abiti, calzini e calzari robusti (dice di consumarne due paia al mese… marciando!); persino, a un certo punto, il permesso di avere una concubina. La sua unità, racconta ancora, prese parte alla repressione di una rivolta in cui venne ferito: «Stiamo lavoriamo duro, soffocando i tumulti e l’anarchia che regna in città, catturando chi ha infranto la legge…». Il luogo era Alessandria d’Egitto, l’anno il 117 e l’episodio narrato attiene alla Seconda guerra giudaica.
Terenziano fu congedato nel 136, poco più che quarantenne, e nel Fayyūm iniziò una nuova vita agiata, a riprova che per un giovane “sveglio” l’esercito poteva davvero diventare, secondo la nota definizione di Alföldy, un “ascensore sociale”, una via d’uscita dalla povertà.
Un destino misero
Ma pochi ebbero tale fortuna. Al British Museum va anche in scena un truce “spettacolo” di ferro e sangue, con molte occasioni per meditare sulla tragica sorte di singoli milites, povere anime perse per la “gloria” di Roma. L’esempio più eclatante viene da una lorica (corazza) segmentata del primo periodo imperiale, ritrovata nel 2018 in Germania a Kalkriese (il sito di Teutoburgo): apparteneva a un legionario che, abbattuto da un germano, sembra venisse “inchiodato” a un albero come trofeo. O ancora, dallo scheletro di un marine in armi, travolto dal fango bollente del Vesuvio a Ercolano mente aiutava dei civili durante l’eruzione del 79. La stessa sorte del suo comandante, il celeberrimo Plinio il Vecchio, praefectus classis che da Capo Miseno si portò a Stabia con le sue quadriremi per soccorrere gli abitanti e lì morì, soffocato dalle esalazioni del vulcano.
Al di là della Manica, colpisce la sorte miseranda di due militari trucidati a Durovernum (odierna Canterbury), gettati in un buco e ritrovati mille e seicento anni dopo, nel 1982: quei poveri resti mostrano che non era tutto “rose e fiori” per i romani, in Britannia, dopo un secolo e mezzo di occupazione. Più terribile ancora è la visione dello scheletro – trovato di recente nel Cambridgeshire – dell’unico crocefisso noto nel Regno Unito, con un chiodo confitto nella caviglia. La croce era il supplizio estremo, tra i romani, riservato a schiavi e peregrini: interminabile, dolorosissimo, infamante, nell’esercito veniva comminato in casi di diserzione o codardia.
E i territori occupati?
Nell’esposizione, qua e là, emergono i malumori dei popoli “pacificati” da Roma, per la quale la parola pax, “pace” – diversamente dall’odierna nozione di “assenza di conflitti” – significava “patto”, nel senso di sottomissione o alleanza condizionata. L’inserimento degli ex-soldati nei territori conquistati fu fondamentale: se i veterani divennero mariti, padri, mercanti, bottegai, amministratori, anche molti “barbari” si romanizzarono. Ma non ovunque se, endemicamente, le ribellioni continuarono a scoppiare in molte parti dell’Impero. Dell’evento più noto, Teutoburgo, già s’è detto, come pure delle rivolte giudaiche. Ricordiamo ancora, nella Britannia del 60-61 d.C., l’epica ribellione della regina icena Boudica, di cui la mostra offre una curiosa “reliquia”: un elmo romano da Camulodunum (odierna Colchester), composto con frammenti di diversi altri distrutti dalla furia dei rivoltosi.
Spesso legionari, centurioni e tribuni furono accusati dagli abitanti dei Paesi occupati di corruzione e prevaricazione. Proteste e ricorsi, per contro, dovevano passare le forche caudine di un magistrato che un grande romano, Giovenale, in una celebre satira definisce «Bardaicus iudex» (un giudice con le scarpe chiodate, traducendo liberamente), un soldato lui stesso!
Le armi protagoniste
La mostra, naturalmente, offre un repertorio straordinario di armi e corredi, dal gladium, l’immancabile spada del legionario, alla tormenta, letale macchina da getto, e persino reperti bizzarri come una corazza rituale in pelle di coccodrillo forse appartenuta a un adepto di Sobek (divinità rettiliana egizia). Evocativi e iconici gli elmi, alcuni con maschere da hippika gymnasia (ludi equestri).
A Londra è esposto anche l’unico esemplare integro di scudo da legionario, dal sito di Dura-Europos, in Siria. Di forma rettangolare allungata – in legno, cuoio e bronzo – ha una foggia semicilindrica avvolgente, con al centro un foro per l’umbone metallico, perduto. La decorazione ha i toni di un affresco pompeiano, lo stesso “rosso sangue” che là connotava il lusso, qui è il colore della guerra: nel registro superiore, un’aquila tra due Vittorie alate; in quello inferiore, un leone. Non un oggetto da combattimento, evidentemente. Dura-Europos, vera miniera per l’archeologia militare, ha restituito un altro manufatto straordinario: una “gualdrappa” in lino, cuoio e scaglie metalliche, sorta di armatura flessibile equina usata dai cataphracti, la cavalleria pesante che i romani copiarono dai parti.
Una fugace umanità delle Legioni
Multietniche, le legioni accoglievano uomini di tutti i Credo religiosi i cui monumenti, specie quelli funebri, sono molto interessanti. Ad Arbeia – la moderna South Shields, all’estremità orientale del Vallo di Adriano – una stele scolpita, per esempio, attesta il matrimonio tra una schiava locale manumissa (affrancata) e un siriano di Palmira, Barates. La donna morì a trent’anni e l’iscrizione, in latino e aramaico, la ricorda come Regina: è in posa matronale, “regale” come il nome latino impostole. Dagli avamposti di frontiera emergono altre figure femminili, di figlie e mogli di alti ufficiali ma anche, in sottofondo, di povere serve e concubine che vivevano nei villaggi dei brittunculi a ridosso dei forti (così, “miserabili britanni”, i romani definivano gli indigeni).
In uno di questi, Vindolanda, delle scarpe da bambino e delle tavolette di legno iscritte – equivalenti ai papiri di Terenziano – offrono una visione un po’ meno cupa della vita lassù: una tavoletta contiene il garbato invito alla propria festa di compleanno che Claudia Severa, lei pure residente sul Vallum, inviò alla sorella Sulpicia Lepidina. Ma è un’eccezione. Più si entra nelle loro vite, più si coglie la fugace umanità (o disumanità) di questi soldati di professione e del loro modus vivendi, altalenante tra l’annuncio di una vita nuova e il terrore di una fine disperata.