È in corso di studio in Parlamento un nuovo disegno di legge su Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita: abbiamo ricevuto in redazione, e volentieri pubblichiamo, una mail su questo argomento scritta da un medico palliativista, il dottor Pietro Angelo Rossi [uno pseudonimo], con decenni di esperienza al capezzale di malati terminali; è una lettera, parte di un carteggio, che offre un punto di vista diverso da quello main stream sul delicatissimo tema del “fine vita” e pensiamo che possa contribuire al dibattito in corso, arricchendolo.
Caro Collega,
prosegue questo breve excursus sui miei pazienti. Ti dissi, tempo fa, che avrei voluto descriverli tutti, e che mi avevano suggerito per anni di farlo: sono stato supponente, pensando di ricordarli sempre, con facilità, ognuno di loro, ma mi rendo conto che non è proprio così. Procedo quindi a scrivere anche per me, non solo per te: scrivo per rivivere quei momenti, e continuare, nel mio piccolo, a sentirmi utile – ma anche per offrire una visione diversa di ciò che capita alla fine della vita.
Mi hai chiesto che cosa io pensi della legge sulle DAT, in Italia, o di eventuali leggi future: ritengo che una legge su materia così scivolosa, se è buona, possa essere utile; se è cattiva, può essere dannosa; se è poco chiara, diventa pessima, perché confonde le idee a tutti: valga il caso (in positivo) del signor Carlo.
Il signor Carlo (nome di fantasia) aveva 76 anni, ed era in Rianimazione del Pronto Soccorso da alcune settimane. Aveva un tumore di origine polmonare con metastasi diffuse; aveva ascessi multipli nell’addome, ed era stato ricoverato perché l’infezione era diventata setticemia; aveva avuto crisi epilettiche, e avevano dovuto sedarlo e intubarlo. Ammetto che non avevamo capito il motivo della richiesta di consulenza: a cosa servono i Palliativisti in Rianimazione?
Il problema, in effetti, era più grave del previsto: i Colleghi della RIA avevano cercato di controllare l’infezione, e ci erano riusciti, ma non erano stati in grado di sospendere la sedazione, né la terapia antibiotica. La riduzione della sedazione farmacologica, infatti, da un lato gli permetteva di recuperare parzialmente la coscienza, dall’altro, però, scatenava le crisi epilettiche, non controllabili dalla terapia ordinaria. Inoltre, a seguito dei tentativi di sospensione degli antibiotici, gli indici di infezione ricominciavano a salire quasi subito.
Era una situazione di stallo generale, con la certezza che la sua malattia tumorale era inguaribile, il sospetto che non avrebbe potuto sospendere la terapia antibiotica, il dubbio che non avrebbe potuto recuperare la coscienza e la probabilità che sarebbe stato necessario, di lì a breve, praticare una tracheostomia per continuare a fornirgli il supporto ventilatorio: effettivamente, un caso complesso, con importanti risvolti etici. Studiai con calma la cartella, visitai il paziente, e decisi di organizzare una riunione collegiale con tutti i familiari e tutto il personale della Rianimazione, di lì a 48 ore.
Tornai in hospice e discutemmo il caso in equipe. Io ero molto dubbioso circa l’opportunità di proseguire con la tracheo, perché mi sembrava un approccio sproporzionato, ma volevo il parere degli altri. Una delle Colleghe, più anziana, e con un approccio valoriale molto differente dal mio, mi disse: «Prima di fermarsi, bisogna avere le idee chiare, perché – in un caso così – indietro non si torna. Se hai la ragionevole certezza che non ci sia possibilità di miglioramento, allora la tracheo è solo un prolungamento inutile della sopravvivenza; se invece ci sono possibilità di miglioramento a medio-lungo termine con la tracheo, il quadro cambia. Cioè: la situazione clinica attuale è davvero irreversibile, con terapia massimale? Questa è la prima domanda. E la seconda è: se è reversibile, qual è il miglior quadro clinico raggiungibile? Diciamo “no” all’accanimento, ma anche all’abbandono». Io fui stupito: tra noi due, lei era sempre quella più propensa ad accettare l’eutanasia (nelle nostre discussioni teoriche), ma mi aveva appena dato una lezione di rispetto della vita!
Due giorni dopo, nella riunione preparatoria, con gli Anestesisti, mi informarono di un nuovo fallimento del tentativo di riduzione della sedazione; mi confermarono, poi, la loro opinione circa la non reversibilità, e circa la sopravvivenza stimata, nella migliore delle ipotesi, in poche settimane: questi dati chiusero il cerchio.
Invitammo i familiari nella saletta che, in ogni Rianimazione, si dedica alle cattive notizie: arrivarono moglie, figli, fratelli. Erano presenti tre medici, me compreso, e un’infermiera del turno. Avevamo preparato in dettaglio la comunicazione: chi di noi avrebbe parlato, l’ordine con cui avremmo parlato, i contenuti, e anche a grandi linee le parole che avremmo utilizzato; per le critiche, avremmo assunto la responsabilità in modo collegiale; la moderazione del colloquio fu demandata a me.
Parlammo a lungo, con calma: la nostra proposta non era intensificare la terapia ma, piuttosto, ridurla. Si trattava di sospendere progressivamente la nutrizione e gli antibiotici, lasciando la sedazione e gli antidolorifici; infine, avremmo sospeso la ventilazione, perché era diventata anch’essa sproporzionata. Spiegammo che non era nostro desiderio abbandonare il signor Carlo, ma ammettere che i nostri sforzi dovevano lasciar spazio a un quadro nuovo: la accettazione della gravità e della non reversibilità: in hospice, è un discorso quotidiano, in Rianimazione, no. I familiari si misero a piangere, ma compresero le nostre motivazioni e le accettarono.
Fu in quel momento che, in accordo con il Collega più anziano, feci un’ulteriore proposta: non avremmo cominciato quel giorno stesso a diminuire la terapia. I familiari rimasero stupiti, e non capivano: spiegammo che era necessario che tutti ci abituassimo alla situazione, e che non volevamo dare l’impressione di farlo morire noi. Ventiquattr’ore ore in più non erano un problema, e Carlo non stava soffrendo. Furono molto felici del dettaglio e approfittarono del tempo per andare a salutarlo, a congedarsi e, dopo averne parlato con noi, chiamarono un sacerdote per l’estrema unzione.
Il giorno successivo si iniziò la sospensione: prima la nutrizione, poi gli antibiotici e, dopo altre ventiquattr’ore, la ventilazione … e il paziente non morì subito. Passarono circa venti ore e, alla fine, Carlo si spense tranquillo.
All’indomani, andai dal Collega e gli chiesi come fosse andato; mi rispose: “Bene, grazie; non ha sofferto lui, non abbiamo sofferto noi e i familiari erano tranquilli”. Gli chiesi ancora cosa pensasse che sarebbe successo, se qualcuno avesse reso possibile il suicidio assistito, l’eutanasia, il testamento biologico: “Un inferno! – rispose, aggiungendo – Non potremo più lavorare così e io me ne andrò”.
Passarono gli anni, e fu approvata la legge 219: il Collega chiese il pensionamento anticipato, e se ne andò.
Adesso, a voi che lavorate con i malati, si chiede di considerare il catetere vescicale o l’aiuto per l’evacuazione come “trattamento di supporto vitale”, ai fini della sentenza circa la non punibilità dell’aiuto al suicidio assistito: capisci cosa voglio dire? Una legge farraginosa, su una materia complessa, genera danni. Non puoi equiparare un clistere ogni due giorni alla situazione del signor Carlo: è insensato. Una legge così, è pessima: abbiamo bisogno della buona pratica clinica, non di una “accabbadora”, con rispetto parlando. Con tutto ciò, non giudico, né mai lo farò, i malati: solo chi fa esperienza in prima persona, può capire; la legge, però, dovrebbe aiutare.
Cercherò di essere meno duro e più chiaro: vedi, caro Collega, il nostro mondo non aiuta a pensare, né a formarsi uno spirito critico, perché siamo in un mondo nel quale l’unica possibilità che gli utenti della metropolitana conoscano le Termopili, è il film di Zack Snyder, e l’epitaffio di Simonide è loro ignoto. Siamo nel mondo in cui i filosofi sono quelli che compaiono nei bigliettini che incartano i cioccolatini. Siamo nel mondo in cui, a furia di diffondere cattive notizie, alcuni malati vogliono morire: per la disperazione, per la solitudine, per la paura, per la paura della paura. E anche perché “il suicidio”, mi diceva una Collega tanti anni fa, “si contagia”.
Adesso forse, capisci la mia posizione: una legge sul fine vita che apra una breccia è, de facto, una Blue Whale di Stato, per motivi economici e ideologici.
Non voglio essere costretto a far morire un paziente, quando avrei potuto curarlo, senza abbandonarlo, ma accompagnandolo; senza obbligarlo a vivere una sofferenza intollerabile, ma senza sopprimerlo come un topino di laboratorio. Voglio le Cure Palliative, e l’umiltà dei curanti, non un programma di eugenetica sociale: non ci sto.
Adesso tocca a te.
Con amicizia, tuo
Pietro Angelo Rossi
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Caro collega… Lettera di un palliativista n. 1