È in corso di studio in Parlamento un nuovo disegno di legge su Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita: abbiamo ricevuto in redazione, e volentieri pubblichiamo, una mail su questo argomento scritta da un medico palliativista, il dottor Pietro Angelo Rossi [uno pseudonimo], con decenni di esperienza al capezzale di malati terminali; è una lettera, parte di un carteggio, che offre un punto di vista diverso da quello main stream sul delicatissimo tema del “fine vita” e pensiamo che possa contribuire al dibattito in corso, arricchendolo.

Caro Collega,

leggo le tue lettere con interesse, anche perché mi dai notizie degli altri dell’equipe, con cui sono rimasto poco in contatto.

Mi dici che ti ha stupito il mio atteggiamento, a proposito di quel paziente della Rianimazione, perché effettivamente pensavi che io fossi molto più rigido. E come mai? Quante volte ci siamo detti che le Cure Palliative sono una disciplina con basi molto chiare dal punto di vista scientifico-sperimentale, ma che richiedono enorme flessibilità!

Il problema non si risolve applicando una solo risposta in modo assoluto, ad ogni problema, e neanche pensando che quelli che hanno una fede religiosa sono necessariamente retrogradi e misoneisti. Dobbiamo adattarci a tutti, senza pregiudizi, per aiutarli: io ritengo che conoscere bene molte fedi religiose aiuti ad avere una visione più equilibrata. Ti racconto due episodi.

Era il turno di notte, e io avevo appena preso servizio alle 20.

Entrai in un reparto di Medicina Interna alle 23 e, nella prima stanza sulla sinistra, vidi la luce di una stanza accesa: c’era una paziente anziana, di circa ottant’anni, nel letto; era assopita, si muoveva abbastanza, aveva un respiro molto affaticato, molto rumoroso. Mi avvicinai e mi resi conto che stava molto male: il viso era contratto, grigiastro e l’aspetto era quello di chi stava morendo. Andai subito a cercare l’infermiera del reparto, chiesi la cartella e un aggiornamento, e lei mi spiegò: la signora aveva un tumore al polmone con metastasi cerebrali e stava effettivamente morendo. I medici del reparto avevano proposto alla figlia che la madre fosse sedata, ma lei era stata irremovibile e si era opposta.

Decisi di provare anche io e andai nella stanza. La ammalata gemeva, aveva il viso contratto e un gorgoglìo respiratorio continuo. Verificai che avesse un catetere vescicale, che la pressione arteriosa fosse sufficiente e le feci somministrare un diuretico, spiegandolo alla figlia, che accettò.

Poi la presi in disparte e le spiegai con delicatezza la situazione: la mamma, purtroppo, stava morendo e non potevamo cambiare la situazione; avevamo la possibilità di non farla soffrire, cercando di tranquillizzarla: potevamo, cioè, farle avere un farmaco che riducesse la sensazione di mancanza di fiato (che, secondo me, aveva) e anche facendola dormire. Le parlai, cioè, della sedazione palliativa. E lei rifiutò.

Facciamo una pausa. Anche adesso, tu e io lo sappiamo, molti Colleghi non sanno cosa sia la sedazione palliativa: la chiamano ancora sedo-analgesia, come nel 1950, e pensano che acceleri la morte. Lo stesso concetto è presente in molti altri, non professionisti della Sanità, i quali pensano che la sedazione sia sempre e solo una dose molto alta di farmaci, cha fa sempre dormire i malati e che si può usare per morire prima, quando vuoi il suicidio assistito. Grande equivoco, facilitato da giornalisti e giuristi: “Ha scelto di morire con la sedazione!” – oppure: “La sedazione è un diritto!”.

Scempiaggini, ti ricordo: la sedazione è un atto medico. Ed è un diritto quando è clinicamente giustificata. Ma te li vedi questi personaggi, ad andare in piazza con i banchetti per raccogliere firme per avere i clisteri? O per dire: “L’antibiotico lo scelgo io!”? Ma per favore!

Torniamo alla paziente, che mi lasciava a disagio: anche se non risvegliabile, per me stava soffrendo, e non me ne capacitavo. Tornai a guardarla, cercando dettagli che mi aiutassero. Notai un’immaginetta devozionale cristiana sul comodino, e guardai la paziente come se fosse stata la prima visita: non era italiana e verosimilmente era originaria del Corno d’Africa, per le sue fattezze fisiche. Mi ricordai un dettaglio letto anni prima, e sparai nel buio, chiedendo alla figlia: “Signora, cosa significano per Lei le parole <Kidane Mehret>?”. La signora rimase di stucco, con il viso contratto, come se qualcuno le avesse fatto una doccia gelata, poi mi guardò e mi disse: “E Lei come lo sa, Dottore?”. Avevo fatto riferimento ad una delle più antiche devozioni mariane del Corno d’Africa. Le sorrisi, e le risposi: “Lo so e basta”.

“Ma Lei, Dottore, è italiano”.

“Sì”.

“È nato ad Addis Abeba?”.

“No, Signora, sono troppo giovane per essere nato nelle colonie, però so cosa significano quelle parole”.

Rimase in silenzio, poi, con il viso immensamente triste, ma più rilassato, mi chiese: “Se fosse la Sua mamma, cosa farebbe?”

“Chiamerei un sacerdote, le farei amministrare i sacramenti, e la farei dormire”.

“Mi fido, lo faccia”.

Andai a parlare con l’infermiera, esterrefatta, che preparò la infusione di morfina e clorpromazina; chiamammo anche il cappellano. Io rimasi lì e, dopo meno di mezz’ora, la paziente riposava tranquilla. La figlia mi sorrise; le feci un piccolo cenno di deferenza e andai a proseguire il giro. L’ammalata morì il giorno dopo, senza sofferenze.

Capisci cosa intendo? Non dobbiamo essere superficiali, né avere pregiudizi. La fede non è un ostacolo, anzi. E, come sai, le Cure Palliative sono nate dentro la Chiesa e l’uso della morfina si è sviluppato grazie ai cattolici, come spiegai al figlio di un paziente. Secondo racconto.

Ero in hospice, un pomeriggio di primavera. Ero un po’ stanco, ma sereno e stavo guardando le foglie degli alberi nel parco, mosse da un discreto vento. Lo sguardo mi si posò su un signore di circa cinquanta o sessant’anni, con lo sguardo corrucciato, che si avvicinava alla porta di ingresso. Gli aprii e lo accolsi. Era un familiare di una potenziale paziente, che voleva informazioni e voleva vedere le stanze. Gli risposi con calma, gli feci notare la pulizia e l’accoglienza, ma gli negai l’accesso alle stanze, perché erano tutte occupate. Spiegai il nostro lavoro, il nostro impegno per non far soffrire, lo sforzo per aiutare tutti a morire con serenità. Poco a poco, mentre parlavo, il suo volto si distendeva, perché stava ricevendo le risposte che desiderava, nei modi e nei contenuti. Alla fine, commentò contento: “Sì, porterò qui mia madre, perché ho capito che la aiuterete a morire con dignità. Peccato che non ci siano posti così dappertutto, in Italia: colpa del Vaticano!”.

Lo guardai e gli risposi: “In effetti è vero il contrario.”

“Scusi?”

“Dicevo che è vero il contrario: gli esperimenti con dosi di morfina regolari, anche alte, per togliere il dolore ai malati di cancro sono stati fatti in Inghilterra, ma sono stati resi possibili da una risposta data molti anni prima dal papa Pio XII ai medici. In pratica, il papa aveva detto che si potevano fare anche dosi altissime di morfina, persino rischiando di uccidere i pazienti, se lo si faceva per togliere il dolore ai malati e non per ucciderli.”

“Ma Lei è sicuro?”

“È il mio mestiere”, gli risposi, sempre sorridendo.

Si scusò, e comunque portò lì la sua mamma.

Vedi, torniamo alle discussioni che facevamo tempo fa, in pausa caffè: in fondo, il problema è l’ignoranza.

E, mi permetto di sottolineare, la fede religiosa non è un ostacolo, né una forma di ignoranza.

Scrivimi più spesso, per favore.

Un carissimo saluto.

Tuo

Pietro Angelo Rossi

Per appronfondire

Caro collega… Lettera di un palliativista n. 1

Caro collega… Lettera di un palliativista n. 2

Caro collega… Lettera di un palliativista n. 3