È in corso di studio in Parlamento un nuovo disegno di legge su Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita: abbiamo ricevuto in redazione, e volentieri pubblichiamo, una mail su questo argomento scritta da un medico palliativista, il dottor Pietro Angelo Rossi [uno pseudonimo], con decenni di esperienza al capezzale di malati terminali; è una lettera, parte di un carteggio, che offre un punto di vista diverso da quello main stream sul delicatissimo tema del “fine vita” e pensiamo che possa contribuire al dibattito in corso, arricchendolo.

Caro amico,

mi hai chiesto un commento su quanto sta succedendo in Italia in questo momento: tutta la narrativa à-la-page che si schiera a favore della morte, presentando, come giustificazione, affermazioni circa “dolore infernale”, oppure “sofferenze intollerabili” o “torture ingiustificate”.

Sai molto bene che preferisco non esprimermi con un giudizio sul dolore dei malati. Il nostro lavoro, te lo voglio ricordare, si basa proprio sul fatto che siamo sempre disposti a credere a quanto ci dicono i pazienti: “Il dolore è quello che un malato dice che è tale”. Ne abbiamo discusso moltissimo, ricordi?

Però dobbiamo ascoltare davvero i pazienti. Un esempio qui di seguito.

Era una piacevole serata, a casa di un Collega, con la sua famiglia e un’altra coppia di amici loro: il marito era chirurgo, la moglie non ricordo, e ci furono presentati quella sera. Parlammo di un po’ di tutto, poi – come sempre fanno i medici alla fine di ogni cena – cominciammo a parlare di lavoro. Io parlai del mio lavoro e il chirurgo mi ascoltava. Caso vuole che lavorassimo nello stesso ospedale, ma non ci fossimo mai incontrati. Rimase pensoso, quando raccontai che il dolore è un sintomo tutto sommato sciocco, che si può controllare bene, quasi sempre – altrimenti, in rarissimi casi, c’è la sedazione palliativa.

Il mattino successivo ricevetti una chiamata: consulenza richiesta dalla Chirurgia! Non pensai al mio nuovo conoscente, finché non lo rividi in reparto: era effettivamente lui. Mi chiamò per nome e mi disse: “Scusami per la richiesta, grazie di essere venuto, ma non sappiamo più cosa fare! Poi ho pensato alla cena di ieri e ho deciso di chiamarti”.

Mi parlò del caso. Avevano un paziente in ambulatorio: 75 anni, maschio, si presentava a loro perché lo avevano operato anni prima asportandogli un tumore renale (e tutto il rene). Aveva ricominciato ad avere dolore all’altro rene, poi aveva sviluppato un’insufficienza renale e aveva iniziato la dialisi, con due sedute settimanali. Per colmare la misura, si era anche presentato un nuovo tumore, nel rene superstite. Era in quel momento in ambulatorio di Chirurgia per dolore, per l’ennesima volta, nonostante gli fossero state somministrate terapie sempre più forti: funzionavano qualche giorno, poi andava in Pronto Soccorso, e da lì lo inviavano in Chirurgia, perché oramai tutti conoscevano il caso e, in qualche modo, era “il paziente dei chirurghi”. Il Collega mi disse che era certamente un caso di dolore che richiedeva la sedazione, ma che nessuno sapeva come fare.

Andai a vederlo. Mi presentai, lo visitai con calma, poi gli chiesi di descrivermi il suo dolore. Lui era in una barella, in quel momento, perché non riusciva più a sostenere la posizione seduta troppo a lungo. Aveva quel colorito cereo, un po’ strano, tipico dei pazienti che ricevono dialisi da molto tempo, e una flebo con un antidolorifico in vena. Mi guardò e mi disse: “Io La conosco, dottor Rossi: mi ricordo di Lei”.

Gli chiesi scusa, perché io non mi ricordavo di lui.

“Lei è venuto a casa mia, l’anno scorso, a far morire mia moglie”. E ne fece il nome.

Effettivamente, avevo assistito a domicilio una signora con quel nome, poi cominciai a ricordare: affetta da tumore della mammella, con metastasi ossee e viscerali, molto dolore. Avevamo controllato il dolore, poi l’avevamo sedata a domicilio, con una sedazione superficiale continua, per agitazione psicomotoria. E ricordai il marito: era cambiato moltissimo, si era consumato.

Mi disse: “Non ne posso più, voglio morire!”.

Gli chiesi il motivo. Mi rispose: “Voglio andare con mia moglie. Questa non è più vita e lei mi manca. Lo so che io sto morendo, adesso però basta! Vivo in una RSA, perché sono solo e debole come un handicappato, e vengo qui due volte alla settimana per la dialisi, più tutto il resto”. Si mise a piangere.

Tornai a guardare la cartella, poi guardai lui, infine chiamai i Colleghi della Dialisi. Mi resi conto che, effettivamente, aveva ragione lui: era mercoledì, aveva ricevuto la dialisi il giorno prima e non sarebbe arrivato a quella successiva, il sabato. Non era suicidio assistito, non era eutanasia: era una constatazione. Ne parlai con i nefrologi, poi prendemmo una decisione: chiamai il chirurgo, gli feci sospendere gli antidolorifici iniettivi e quelli per via orale. Feci iniziare una terapia con una minima dose di delorazepam (due mg, figurati!) e chiesi un letto ai chirurghi per un giorno. Il Collega disse quattro parolacce sottovoce, poi accettò. Il percorso era semplice: un giorno di osservazione, poi rientro in RSA con la nuova terapia. Non avremmo organizzato altre sedute dialitiche, ma solo una visita in RSA, da parte dei palliativisti, in accordo con il medico della mutua.

Il chirurgo sembrava avere perso tutta la fiducia in me, ma non si oppose. Era molto pre-Covid, i letti c’erano.

Mi telefonò il giorno dopo, con una voce un po’ stranita: “Pietro, ma è incredibile!”.

“Cosa?”.

“Non ha dolore, ma come è possibile?”.

“Vedi, non l’ha mai avuto. Vuole morire, ha un lutto non risolto e, soprattutto, sta morendo davvero”.

Rimase in silenzio, poi mi disse: “Va bene, io non ci avevo capito niente; è proprio il tuo mestiere, mi fido”.

Il paziente tornò in RSA il giorno stesso, giovedì; il venerdì mattina, prima che io andassi a vederlo in RSA, si era spento con tranquillità, senza sintomi.

Ci fu la riunione collegiale ex post, con i nefrologi e i chirurghi; in quell’occasione, sentii un’espressione che non dimenticai più: il nefrologo più anziano disse che avevamo fatto esperienza di una “morte intercettata, non causata”.

Adesso ti è più chiaro? Come sarebbe morto quel malato, se avessimo continuato con un antidolorifico (inutile), se non gli avessimo dato un farmaco lievemente sedante (molto utile) e se non avessimo compreso la sua vera necessità? Quante volte una richiesta di morte per dolore è una richiesta di rimodulare terapie sproporzionate? Quante volte è una richiesta di aiuto, per la solitudine o per la povertà? Quante è un lutto non risolto?

Amico mio, ti ripeto che non voglio giudicare i malati e la loro sofferenza: ho sempre cercato di aiutarli.

Permettimi però un commento un po’ forte: non ho bisogno di un film di Almodóvar per trovare la terapia giusta per un malato che ha dolore, come non ho bisogno di un film di Tinto Brass per fare lezione di educazione sessuale alle medie.

Ho bisogno di persone formate, ho bisogno di farmaci, ho bisogno di strumentazione. Ho bisogno che la gente la smetta di farsi prendere in giro da guaritori e maghe, e che vada dal medico di famiglia, subito. Ho bisogno che i medici di famiglia abbiano il tempo di fare il loro lavoro, senza stress e con meno cartaccia da compilare.

La prossima volta ti racconterò un caso più difficile, di un malato al domicilio, che non dormiva per il dolore. Un’altra storia, che ti racconterò la prossima settimana.

Non dimenticarti di mandarmi quell’articolo che hai citato nella tua ultima mail.

Un abbraccio,

Pietro Angelo Rossi

Per approfondire

Caro collega… Lettera di un palliativista n. 1

Caro collega… Lettera di un palliativista n. 2

Caro collega… Lettera di un palliativista n. 3

Caro collega… Lettera di un palliativista n. 4