È in corso di studio in Parlamento un nuovo disegno di legge su Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita: abbiamo ricevuto in redazione, e volentieri pubblichiamo, una mail su questo argomento scritta da un medico palliativista, il dottor Pietro Angelo Rossi [uno pseudonimo], con decenni di esperienza al capezzale di malati terminali; è una lettera, parte di un carteggio, che offre un punto di vista diverso da quello main stream sul delicatissimo tema del “fine vita” e pensiamo che possa contribuire al dibattito in corso, arricchendolo.

Caro amico,
mi hai detto che hai apprezzato il primo racconto, perché ti è parso “credibile” (parole tue).
Provo allora a offrirtene un altro, prendendo spunto da alcune domande che – spesso – ricevevo dai Colleghi di altre specialità: “Ma chi te lo fa fare? Ma sei matto? Tu vedi solo la morte, come fai a resistere?”. Le domande, in effetti, erano e restano corrette, però è difficile rispondere.

Provo a farti capire, iniziando a parlare degli altri: quattro anni fa, durante il Covid, ricevetti la telefonata di un’amica, medico bravissimo, che era già a fine carriera, ma non voleva abbondare la trincea nel momento più duro, e così si era data disponibile per restare, facendo i turni in un reparto di Medicina Generale, ritrasformato in Reparto Covid.
Una sera mi telefonò, dal reparto, per chiedermi un’informazione su un dosaggio di alcuni farmaci, ma era una scusa: mentre io le rispondevo, cominciò a singhiozzare al telefono, e a dirmi: “Muoiono tutti, non ne posso più! Due ore prima parlano, e due ore dopo non ci sono più! Come se si spegnessero i polmoni! Noi non siamo come voi, noi non siamo palliativisti, non siamo pronti a questo modo di morire. Ma come fate, voi, a resistere?”.

In effetti, ognuno di noi ha i propri motivi per fare questo lavoro: alcuni arrivano perché sono in burn out, non sopportano più il carrierismo, o gli attacchi personali; altri non sopportano più le terapie sproporzionate, inutili, che sono stati costretti a prescrivere per paura di rappresaglie legali; altri, e non sono pochi, per passione. Il contatto con i malati ti spinge a dare sempre di più e, quando capisci che la morte è ciò a cui siamo meno preparati, ti decidi a combattere, per gli altri e con gli altri, quest’ultima battaglia. E i pazienti lo capiscono. Come quella che segue.

La signora era anziana, più che ottantenne. Viveva con il marito, all’ultimo piano di un condominio signorile. Aveva tre figli, ormai professionisti affermati, che la seguivano, compatibilmente con i loro impegni di lavoro e famiglia. Ero andato a visitarla, ricevendo un avviso previo: apparentemente, i familiari erano molto ostili al concetto di Cure Palliative, molto richiedenti e poco collaboranti.
Andai da solo, perché l’infermiera era già impegnata altrove. Mi accolsero in soggiorno: bello, luminoso, raffinato. Un grosso divano ad elle, sulla sinistra; di fronte a me, un mobile con vetri a giorno; un tavolo con un elegante vaso in vetro nero, al centro della stanza; a destra, la porta-finestra, impreziosita da una tenda lunga.

Io guardavo la stanza, loro guardavano me. La figlia, in piedi, un po’ sostenuta. Alla mia sinistra, la carrozzina con la paziente e, dietro di lei, il marito. Cominciammo a parlare: la signora era affetta da un tumore cerebrale maligno, era stata assistita da un’ottima equipe di Oncologi, i quali avevano sospeso la terapia contro il tumore perché, purtroppo, non era più utile. Tutti parevano essere informati della diagnosi e della prognosi, ma – evidentemente – non era così: la figlia, da lontano, mi lanciava occhiate furibonde e minacciose, ogni volta che io provavo a far scivolare il discorso sul futuro e sulla morte. Decisi di provare una strategia a lungo termine, siccome la paziente non era in condizioni di estrema gravità: parlammo dei sintomi, delle possibili terapie che si potevano offrire al domicilio. Parlammo anche della nostra disponibilità ad andare a casa loro in caso di emergenza, per evitare che lei finisse in Pronto Soccorso. Cambiai la terapia del dolore, perché stava già usando la morfina, ma non il paracetamolo, più utile in molti casi simili. Apprezzarono il mio contributo, e la figlia pareva più rilassata.

Tornammo altre volte e, piano piano, ci conquistammo la fiducia della famiglia. La paziente, nel frattempo, peggiorava inesorabilmente. Un giorno, la trovai nella camera da letto: non riusciva più a muoversi, ed era diventata cieca. Parlai con il marito, in soggiorno, e gli dissi che era venuto il momento di comunicare con chiarezza la prospettiva di morte a sua moglie, anche per offrire a loro due la possibilità di parlarsi ancora con calma: il marito, dispiaciuto ma molto equilibrato, accettò.

Andai nella stanza da letto e mi sedetti accanto alla paziente; lei era sdraiata sul lato sinistro del letto, che era verso la porta. Io la salutai, e le chiesi come stesse: mi rispose con molto autocontrollo, menzionando la cecità e la impossibilità a muovere le gambe. Le presi la mano, come facevo sempre, durante i colloqui, e le chiesi se volesse la mia impressione: rispose affermativamente. Le specificai che, forse, erano notizie non belle: confermò. Allora, con calma, ripercorsi tutta la storia della malattia, la radioterapia, la chemioterapia – e le descrissi la situazione attuale, la progressione dei sintomi, la irreversibilità della cecità e della paralisi. Alla fine, menzionai la morte, e la possibilità – se avesse sviluppato sintomi insopportabili e intrattabili – di ricevere la sedazione profonda.

Smisi di parlare, e ascoltai il silenzio della stanza.
Passarono una decina di secondi, poi intervenne il marito: “Tesoro, quello che il dottore ha detto è molto triste, ma noi siamo qui per te. E poi, lui è stato così bravo; te lo ha detto con molta delicatezza, come un amico, come un fratello”.
La moglie gli sorrise, poi, senza smettere di stringermi la mano, mi rivolse il suo sguardo, quello sguardo quasi infinito, che hanno i ciechi quando non indossano gli occhiali neri: “Come un padre”, aggiunse.
Rimasi in silenzio.

Non ho mai dimenticato quello sguardo, e quelle parole. Non solo perché sono uno dei complimenti più belli che io abbia mai ricevuto, ma anche perché mi avevano descritto in un modo sconvolgente: nemmeno io avevo mai saputo comprendere me stesso, o il mio atteggiamento. In quelle parole, così preziose perché pronunciate sul finire della vita, ritrovavo finalmente il perché delle mie fatiche, dei miei comportamenti, del mio voler restare accanto ai malati. Quelle parole erano la risposta, molti anni prima, alla domanda che avrei ricevuto, molti anni dopo, durante il Covid, da parte della Collega.

Adesso, amico mio, sai anche tu. E capisci il perché di quelle parole che tante volte ci siamo detti: se sarà promulgata una legge che esige dai Palliativisti la morte, sia essa eutanasia che suicidio assistito, molto di noi diserteranno. E gli altri, quelli che si piegheranno, moriranno dentro. Quel giorno, avranno ucciso la nostra disciplina, perché le cure palliative sono altro: noi accompagniamo tutti i malati fino alla fine, senza accelerare né prolungare la morte.

Tutti i malati. Non uno di meno.

Un caro saluto.
Tuo
Pietro Angelo Rossi

Per approfondire

Caro collega… Lettera di un palliativista n. 1

Caro collega… Lettera di un palliativista n. 3

Caro collega… Lettera di un palliativista n. 4