Caro Collega,
eccomi di nuovo a te, con qualche piccolo contributo per la tua riflessione.
Ci siamo lasciati, l’ultima volta, con l’impegno di affrontare la situazione nella quale un Collega ti richiede con insistenza, magari per sé, la morte e non accetta un approccio di Cure Palliative. Desidero cominciare con un episodio, a mio modo di vedere esplicativo, occorso anni fa. Avevamo ricoverato, in hospice, un medico: era una Collega malati di SLA, (che chiamerò Francesca) di circa 50 anni, sposata, con due figli adolescenti. Il nostro Servizio era stato inizialmente consultato da un altro Reparto per esprimere un parere sul percorso assistenziale, e la malata aveva confermato il desiderio di non essere sottoposta a manovre invasive; aveva accettato la proposta del ricovero in hospice, quando le era stato spiegato che avrebbe potuto così mantenere il rapporto con i propri figli. Fu trasferita nella nostra unità, e in breve tempo ottenemmo un miglioramento dei sintomi, un recupero della deglutizione, la riduzione della durata dell’utilizzo della ventilazione meccanica non invasiva (NIV) e una maggior mobilizzazione in carrozzina. Concordammo quindi di proseguire la nutrizione ordinaria, per via orale, e di sospendere la nutrizione parenterale. Ad un certo punto l’ammalata, che già in un’altra sede aveva espresso il desiderio di accedere ad una procedura di suicidio assistito, rifiutò ogni terapia orale, accettando solo l’infusione morfina e midazolam, già in uso. Continuammo quella terapia per qualche giorno, per mantenere il controllo del dolore e dell’ansia.
Un mattino, appena entrato in hospice, mi chiamò l’infermiera di turno e mi fece osservare che l’infusione di Francesca era stranamente finita prima del previsto; inoltre, la paziente era ritrosa nel dialogo con il personale: qualcosa era cambiato. Andai a vederla e mi sedetti con calma accanto a lei: chiese di poter evitare l’utilizzo della NIV, nella prospettiva di essere sedata su richiesta. Rimasi in silenzio e mi resi conto che, forse, la flebo non era terminata prima per un caso, ma per una decisione di Francesca, ancora in grado di muoversi e modificare il flusso della terapia: così non si poteva andare avanti, perché mancava fiducia.
Le chiesi di parlare a quattr’occhi; mi resi conto, dopo aver parlato con lei, che c’era stato un intervento non opportuno di altri professionisti, estranei alla nostra équipe: questi, legati alla paziente da amicizia personale, avevano proposto ognuno opzioni differenti, suggerimenti non conformi tra loro, né in grado di risolvere il problema clinico e relazionale. Decisi allora di organizzare con rapidità un colloquio con Francesca e il marito, sia separati che insieme, nel corso dei quali spiegai: che il ricovero non era obbligatorio; che ogni malato aveva ogni diritto di rifiutare qualunque genere di terapia, assistenza o presidio; che nessuno avrebbe cercato di costringere un paziente ad una manovra invasiva; che la sedazione profonda continua è un approccio terapeutico possibile, ma che si applica per decisione medica, in presenza di sintomi refrattari; che nessuno della nostra équipe era disposto ad eseguire una manovra di tipo eutanasico od assimilabile.
A seguito di questi chiarimenti, Francesca fu molto più tranquilla, modificò le proprie richieste, accettò il nostro atteggiamento e decise di accettare anche la terapia, per bocca, sottocute o endovena, che le avessimo in futuro proposto; morì in hospice, tranquilla, con i familiari accanto e i sintomi controllati, senza necessità di suicidio assistito o di eutanasia per ottenere ciò che, in realtà, desiderava: una morte degna, senza solitudine, senza abdicare alla propria libertà di arrabbiarsi con la malattia che la affliggeva, ma imparando ad affidarsi – alla famiglia e all’equipe.
Ti ho presentato un caso difficile e impegnativo, ma allo stesso tempo esemplificativo di quanto possa accadere e chiarificante in ordine all’atteggiamento da tenere. Sai bene che molte volte, nella storia della Medicina, ci si è chiesti come comportarsi con il tentativo, da parte dei malati, di obbligarci ad agire contro scienza e coscienza. La risposta è sempre stata quella di assistere, senza abbandonare ma senza cedere alle sirene della morte facile: chi cede disimpara la propria arte, perché taglia le proprie radici culturali e valoriali. La Medicina è infatti nata per prendersi cura di persone malate e di tutte le loro sofferenze, senza tradimenti, sapendo che, a volte, non riusciamo ad avere risposte risolutive per curare il dolore interiore, ma non abbandoniamo nessuno: restiamo con i malati, li guardiamo, li tocchiamo. Noi siamo disposti a restare lì: quando piangono, quando ridono, quando bestemmiano, quando pregano, quando mangiano, quando si sporcano con le loro deiezioni, quando ci guardano appena prima di morire.
Spero di averti confermato nell’idea che eutanasia e suicidio assistito, in qualunque forma si diano, non sono il frutto maturo di una Medicina moderna, né uno scalone in più delle Cure Palliative: sono invece la corruzione delle Cure Palliative e la conseguenza della decomposizione dell’arte medica, che cessa di essere servizio all’uomo e diventa servitù nei confronti dei desideri. Una follia. Stanne lontano e difendi i pazienti da questo concetto velenoso.
Un caro saluto.
Tuo,
Pietro Angelo Rossi
Per approfondire
Caro collega… Lettera di un palliativista n. 1
Caro collega… Lettera di un palliativista n. 2
Caro collega… Lettera di un palliativista n. 3
Caro collega… Lettera di un palliativista n. 4
Caro collega… Lettera di un palliativista n. 5
Caro collega… Lettera di un palliativista n. 6
Caro collega… Lettera di un palliativista n. 7
Caro collega… Lettera di un palliativista n. 8