Caro Collega,
il racconto di questa settimana ha un protagonista inedito: una Collega, tristemente defunta durante l’ultima pandemia. Mi chiamò un pomeriggio di tanti anni fa, in evidente imbarazzo, chiedendomi un consiglio: il papà del suo compagno, settantenne, soffriva di un tumore del polmone e gli avevano tenuto nascosto il quadro clinico. La situazione, però, era peggiorata progressivamente nelle ultime settimane, con alcuni episodi di dolore e mancanza di fiato: i familiari non sapevano come fare per gestirlo, ma avevano paura di chiamare l’equipe di Cure Palliative, perché noi (in altri termini, io, perché era la mia zona di lavoro) eravamo abituati a proporre ad ogni malato la possibilità di conoscere la realtà, anche la verosimile morte imminente.
La Collega e il compagno non volevano parlarne con il paziente e avevano cercato di tenerci lontani, poi avevano ceduto.
Mi offrii di andare il giorno dopo a visitare il malato. Era una mattina con un cielo grigio, anche se in un paesino di montagna. Salii le scale esterne, che portavano ad un ballatoio e, da lì, alla cucina. Entrai, mentre sentivo il compagno di Giovanna (non era il suo nome) dire ad alta voce: “Non ti preoccupare papà, non succede niente, adesso viene un dottore e ti fa stare bene”. Mi sedetti in cucina e cominciai a leggere la storia clinica: il tumore era già metastatico, anche a livello linfonodale. Commentai con Giovanna e il compagno la situazione, quindi proposi la necessità di informare il malato della realtà: si opposero duramente. Fu allora necessario mediare, ipotizzando un percorso di iniziale controllo dei sintomi, poi di progressiva comunicazione: accettarono a denti stretti.
Andai a conoscere il signor Francesco (nome di fantasia): lo visitai, gli diedi alcune indicazioni terapeutiche e promisi che sarei tornato. Giovanna mi ringraziò, poi non mi chiese più di andare a visitare Francesco per alcuni giorni e decise di non attivare il nostro servizio, ma di gestire il malato da sola. Mi richiamò dopo circa due settimane: Francesco stava male, aveva dispnea e disorientamento. Tornai a visitarlo, salendo lungo la stessa scala della volta precedente. La porta che introduceva nell’appartamento era aperta ed io sentii distintamente la voce del figlio di Francesco che gli diceva: “Stai tranquillo, papà, non succede niente, adesso migliori”, poi venne ad accogliermi e a farmi accomodare in cucina; quindi, immediatamente dopo, uscì dalla cucina, andò nella stanza del paziente e gli disse: “Il dottore è arrivato: adesso ti fa dormire, perché stai morendo!”. Seguì un silenzio terribile.
Andai a vedere Francesco e, purtroppo, la situazione era drammatica: era sdraiato su un vecchio divano, con due cuscini dietro la testa; respirava con estrema fatica ed aveva un pallore effettivamente cadaverico. Mi sedetti di fronte a lui, lo visitai in fretta, poi gli parlai. Decisi, in quel momento, di tralasciare qualunque richiesta dei familiari e di assumermi ogni responsabilità: gli offrii di sapere la verità e, con uno sforzo enorme ed una altrettanto enorme paura, fece un cenno di assenso con la testa.
Gli spiegai la situazione, il peggioramento, la necessità di utilizzare la sedazione profonda: il sintomo era così grave e il quadro così avanzato, che mi sembrava non ci fossero altre scelte.
Gli chiesi il permesso – e lui, ovviamente, me lo negò. La dispnea lo faceva soffrire, ma la paura di morire, con la disperazione legata alle menzogne dei familiari, ancora di più: essi si arrabbiarono, ma io mi rifiutati di procedere. Arrivò in casa, in quel mentre, la nipote ventenne, piangendo, perché l’avevano avvisata per telefono. Chiese di parlare con il nonno da sola, poi in mia presenza; gli altri familiari furono allontanati. La ragazza teneva la mano del nonno tra le sue, chiedendogli di fidarsi e lasciare che io lo aiutassi; dopo un affettuoso e disperato tentativo di resistere, Francesco accettò di farsi somministrare un solo farmaco per combattere la mancanza di fiato, rifiutando la sedazione e desiderando preservare fino alla fine lo stato di coscienza.
Iniziai un’infusione endovenosa con una discreta dose di farmaco; la nipote non si muoveva dal fianco del nonno – rimase lì tutto il pomeriggio, la notte e il mattino successivo, quando Francesco morì, senza sedazione e con il sintomo non perfettamente controllato.
Mi chiederai perché io abbia scelto di raccontarti questa storia. Semplice: per ricordarti che, molte volte, il desiderio morboso e irrealistico di evitare qualunque genere di sofferenza è alla base delle richieste scorrette dei familiari. Alcune volte, ci chiedono di non somministrare antidolorifici ai malati (“Se gli date la morfina, muore prima”); altre volte, molto spesso, ci ingiungono di tacere la gravità della situazione (“Se le dite la verità, sicuramente si lascia morire prima; non bisogna dirle la verità, perché altrimenti muore male, fidatevi, noi la conosciamo”).
La famiglia, ovviamente, deve essere coinvolta nel percorso assistenziale: è una risorsa imprescindibile, ma si fa spesso guidare dalle emozioni, dalla paura della morte, dalla paura della (propria) sofferenza emotiva, dal timore del dolore fisico (altrui, e che può essere sovrastimato).
Assistere un malato terminale non vuol dire concedergli tutto quello che questi ci chiede; né, tantomeno, obbedire irrazionalmente a tutte le richieste dei familiari. Assistere un malato terminale è navigare in acque difficili, occupandoci della sofferenza fisica, piscologica, sociale e spirituale di tutto il nucleo familiare, paziente e parenti insieme: la risposta a questa sofferenza non è la medicina dei desideri, ma la medicina dei bisogni; siamo al servizio dei malati, non i servi delle ubbìe di chicchessia; soprattutto in un momento nel quale i media propongono, in modo martellante, l’equazione “libertà uguale autodeterminazione assoluta uguale togliersi la vita”.
Non desidero mancare di rispetto nei confronti di coloro che, in un modo o nell’altro, cercano soluzioni contrarie all’arte medica, siano essere terapie sproporzionate o la morte medicalmente assistita; e ancora meno, voglio riferirmi a chi – disperato – si rivolge ai giornali e ai giudici: il rispetto, come mi hai spesso sentito dire, è assoluto per le persone coinvolte; ma non per le scelte che sappiamo essere irragionevoli.
Quale messaggio vorrei dunque lasciarti questa settimana? Desidero dirti che, se durante un’assistenza ad un paziente ci viene domandato di mentirgli, di somministrargli terapie sproporzionate o di farlo morire in anticipo, quella richiesta è assai spesso frutto di un misto di paura, ignoranza, solitudine. Il nostro dovere come palliativisti è lenire la sofferenza, ove questo è possibile, senza obbligare i malati ad accettare le nostre indicazioni; è un percorso di fiducia, un cammino che percorriamo insieme: perché il fondamento non è il consenso informato, ma la relazione interpersonale. E la relazione è, in un certo senso, il fatto che emerge dalla azione reciproca di più persone, che si rispettano a vicenda e si riconoscono pari dignità; nel nostro caso, i curanti, i pazienti e i familiari, uniti dal filo rosso di una malattia, che è mortale, ma che non deve privarci della nostra umanità.
Salutami tutti.
Tuo,
Pietro Angelo Rossi
Per approfondire
Caro collega… Lettera di un palliativista n. 1
Caro collega… Lettera di un palliativista n. 2
Caro collega… Lettera di un palliativista n. 3
Caro collega… Lettera di un palliativista n. 4
Caro collega… Lettera di un palliativista n. 5
Caro collega… Lettera di un palliativista n. 6
Caro collega… Lettera di un palliativista n. 7
Caro collega… Lettera di un palliativista n. 8