È in corso di studio in Parlamento un nuovo disegno di legge su Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita: abbiamo ricevuto in redazione, e volentieri pubblichiamo, una mail su questo argomento scritta da un medico palliativista, il dottor Pietro Angelo Rossi [uno pseudonimo], con decenni di esperienza al capezzale di malati terminali; è una lettera, parte di un carteggio, che offre un punto di vista diverso da quello main stream sul delicatissimo tema del “fine vita” e pensiamo che possa contribuire al dibattito in corso, arricchendolo.

Caro Collega,

sono contento che l’ultimo mio racconto ti abbia colpito così tanto, anche se non me lo spiego: io non sono mai stato infallibile, né sono sempre riuscito ad avere buoni risultati! Capisco che, forse per la mia anzianità, tu mi abbia sempre visto circondato di un alone di eccellenza, ma la verità è che sono solo più vecchio e ho accumulato più cicatrici. Il significato di questi miei racconti, dunque, è anche impedirti di compiere tutti i miei errori e per questo te li offro.

Mi hai fatto osservare che, in molti casi, le DAT possono essere utili; che sono uno strumento e come tale lo dobbiamo governare; che sono un’occasione anche per aiutare i malati…

Permettimi di dissentire: le DAT sono un fatto, perché sono nella legge; non sono obbligatorie; possono essere un limite (anche se non lo sono necessariamente, hai ragione). Ciò che ritengo fondamentale è il dialogo con i malati, per uscire dalle secche dei rapporti non chiari, delle frasi non dette, delle paure senza fondamento: abbiamo bisogno di parlare davvero con i malati, di entrare in sintonia con loro, di scoprirci un po’, senza esagerare nelle sdolcinature.

Molti anni fa, mi fai ricordare, ricevetti una chiamata da un compagno di corso, medico della mutua nella mia ASL. Mi telefonò e, dopo i convenevoli di rito sulle rispettive famiglie, mi chiese: “Senti Pietro, ma voi seguite anche i non oncologici?”.

“Certo, Edoardo (nome di fantasia): perché? Di chi mi vuoi parlare?”.

Per fartela breve, il mattino dopo, di buon’ora, ero in auto verso la casa della signora Francesca (anche questo, nome fittizio): era un’anziana poetessa, che viveva da sola in un appartamento fuori città. Aveva una gravissima patologia respiratoria, esito di cinquant’anni di fumo indefesso; aveva necessità di ossigeno, ma lo rifiutava; non voleva farmaci, ma aveva una terribile dispnea. La signora, in realtà, non conosceva la propria condizione di terminalità per fortissimi ostacoli posti dai parenti, che non volevano le Cure Palliative, e anche perché il mio amico Edoardo non riusciva a dirle la verità.

Arrivai a casa di Francesca e la trovai in cucina, con due dei cinque figli, che erano arrivati da un’altra città per starle accanto: boccheggiava per la mancanza di fiato, ma aveva uno sguardo quasi di sfida per me, come se io non potessi capirla o aiutarla; i figli, nel frattempo, mi fecero subito cenno con gli occhi di non parlarle, gesticolando dietro le sue spalle. Lasciai che la signora mi raccontasse la propria storia: il sintomo peggiore (cioè, la mancanza di fiato), il desiderio di non perdere il controllo, la poca stima per i farmaci e, infine, la propria estrema fiducia nella pratica dello yoga. Al di là delle mie opinioni, ti confesso che ebbi davvero l’impressione che potesse sopportare la dispnea, che era terribile, solo per la forza di volontà e l’esercizio fisico che faceva.

Decisi di trattarla come voleva: con chiarezza e con un linguaggio ad un tempo comprensibile, ma non volgare. Le proposi di visitarla, le spiegai in anticipo le manovre, le dissi che dovevamo andare in camera da letto. Mi guidò, con evidente fatica ma altrettanta dignità; mentre passavamo in corridoio, notai i titoli dei libri ed ella fece un commento, non ricordo quale. Io colsi l’occasione per conquistarne un po’ la fiducia ed esplicitai l’apparente riferimento delle sue parole alla Vita Nova, citando i versi che mi sembravano più appropriati. Tutto cambiò in un momento: si fermò, mi sorrise e mi disse: “Un medico letterato! Oggi è il mio giorno fortunato! Mi fido di Lei, dottor Rossi.” I figli erano stupefatti e un po’ intimoriti. Io devo ancora ringraziare l’angelo custode dei palliativisti per avermi dato l’imbeccata.

Andammo in camera, la visitai e, in presenza dei figli, con tatto, le proposi di sapere: rispose affermativamente. Chiacchierammo (fu davvero così – un colloquio disteso, nonostante tutto) della sua situazione, della gravità, della necessità di usare la morfina a basso dosaggio, anche della sedazione palliativa. Sai bene che, nel primo contatto, è ben difficile riuscire a fare tutto così in fretta.

Dovetti contrattare e, alla fine, accettò di assumere quattro gocce di morfina ogni quattro ore: tornai il giorno dopo e la trovai serena, senza dispnea e pronta a fare il passo successivo. Parlammo a lungo dei possibili peggioramenti e della verosimile necessità di una sedazione a breve termine. I figli, presenti, dopo un’iniziale resistenza, si erano arresi: il beneficio provato dalla mamma era stato più forte delle loro paure.

Il mattino ancora successivo fui chiamato da Edoardo: la situazione era precipitata e trovai Francesca raggomitolata sul letto, in ginocchio, con un’enorme fatica respiratoria. Era rimasta così dalla sera prima, e la morfina per via orale non era più sufficiente. La toccai e lei voltò il capo. Le feci un cenno e le dissi: “Forse, è il momento.”

“Va bene, Dottore. Non ho paura.”

I figli piangevano. Chiamai subito l’infermiera reperibile, che – dopo 15 minuti – arrivò con il necessario. Riuscì a prendere un accesso venoso stabile, mentre Francesca era ancora in posizione fetale; iniziammo un’infusione con morfina, midazolam e un minimo di clopromazina; dopo venti minuti era sedata e, piano piano, gentilmente, la mettemmo in posizione supina. I figli non capivano e continuavano a chiedere: “Ma adesso muore? Le ha fatto la sedazione per farla morire? Come fa a restare sdraiata senza morire, malata com’è?”.

Spiegai loro che quello che vedevano erano solo le Cure Palliative: niente di più – quello che loro, per paura, avevano rifiutato per mesi, ostacolando il medico di famiglia: non lo dissi così, ma ci capimmo e si fecero da parte.

Mettemmo un catetere vescicale; spiegammo ai familiari come fare le “dosi di salvataggio” di vari farmaci.

E uscimmo, non a riveder le stelle, ma solo il sole del mattino.

Il giorno dopo, senza necessità di modificare i dosaggi, Francesca era morta: serena, senza soffrire.

I familiari e lei non sapevano alcunché delle Cure Palliative: avevano solo un mare di pregiudizi. Cosa pensi che avrebbero scritto, sulle DAT? Qualcosa che rispecchiasse la loro visione, ma non la realtà.

Lo sai tu e lo so io: il problema non è far finta di risolvere le liste di attesa con trucchi informatici, né obbligare tutti gli anziani ultrasettantacinquenni a scrivere le DAT quando entrano in ospedale (e sai che è stato proposto!). In verità non è un problema politico e infatti i politici non riescono a comprenderlo, né a correggerlo, di qualunque partito essi siano. La verità è che abbiamo bisogno di tempo, Collega; tempo per visitare i malati, tempo per ascoltare i familiari, tempo per confrontarci fra noi e correggerci a vicenda. Tempo per studiare e tempo per riposarci. Non ci serve la telemedicina: ci servono Maestri della Medicina.

Per questo, fammi il favore: ricorda ai nostri amici politici e giornalisti che non ci serve solo la cartella clinica elettronica e che le DAT sono uno specchietto per le allodole – noi vogliamo tornare a fare i medici e ad assistere la gente che soffre. Vogliamo guarire, o quantomeno curare. Siamo pronti a guardare negli occhi i malati mentre li sediamo, come abbiamo fatto con Francesca: senza paura, perché abbiamo la dolorosa serenità di chi si sta accomiatando, ma senza uccidere.

Custodiamo la vita. Non siamo disposti a dispensare la morte.

Un saluto,

Pietro Angelo Rossi

 

Per approfondire

Caro collega… Lettera di un palliativista n. 1

Caro collega… Lettera di un palliativista n. 2

Caro collega… Lettera di un palliativista n. 3

Caro collega… Lettera di un palliativista n. 4

Caro collega… Lettera di un palliativista n. 5

Caro collega… Lettera di un palliativista n. 6

Caro collega… Lettera di un palliativista n. 7

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Caro collega… Lettera di un palliativista n. 9

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Caro collega… Lettera di un palliativista n. 12