È in corso di studio in Parlamento un nuovo disegno di legge su Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita: abbiamo ricevuto in redazione, e volentieri pubblichiamo, una mail su questo argomento scritta da un medico palliativista, il dottor Pietro Angelo Rossi [uno pseudonimo], con decenni di esperienza al capezzale di malati terminali; è una lettera, parte di un carteggio, che offre un punto di vista diverso da quello main stream sul delicatissimo tema del “fine vita” e pensiamo che possa contribuire al dibattito in corso, arricchendolo.
Caro Collega,
grazie per gli auguri di Natale, che ricambio di cuore.
Siamo ormai giunti all’ultimo dei casi che ti volevo raccontare. Lo scopo di questa descrizione è ribadire che il nostro primo nemico è l’ignoranza: ho sentito, ancora di recente, personaggi illustri pontificare sulle “orribili sofferenze” a cui noi sottoporremmo i pazienti, se non offrissimo loro il suicidio assistito – e sono veramente senza parole per la loro ignoranza crassa! Ho sempre assoluto rispetto per chi soffre e per chi, disperato, chiede di morire, ma sappiamo che le persone ci chiedono di morire solo perché, in realtà, non riescono a vivere senza soffrire; e spesso questo capita per colpa nostra, perché siamo ignoranti e incompetenti; perché abbiamo paura di chiedere aiuto ad un altro Collega; perché… mille perché.
Conosci la mia teoria: se la stragrande maggioranza dei pazienti che chiedono di morire cambiano idea dopo le Cure Palliative (e ciò succede), questo basta a dimostrare (oltre a tutti i ragionamenti etici) che non dobbiamo offrire loro la morte; se lo facessimo, priveremmo questi malati del loro vero e lecito desiderio di vivere senza soffrire, solo per nostra comodità o, forse, per un cinico calcolo economico: sarebbe, insomma, una forma di eutanasia sociale, come quella di Hitler nel programma Aktion T4. O come quella di Trudeau in Canada, tanto per non andare lontani nel tempo.
Quali soluzioni possiamo offrire? La buona pratica clinica e il coraggio di andare oltre i pregiudizi.
Ti racconto: ero al mio secondo incarico in un hospice e non conoscevo bene l’equipe. Era domenica mattina e stavo entrando per il giro visita, quando mi chiamarono con urgenza per un paziente dell’ultima camera: maschio, bianco, 63 anni. Fumatore e bevitore, aveva un tumore della laringe con metastasi multiple. Era molto agitato e non riuscivano a capire cosa stesse succedendo, perché stava già ricevendo morfina, clorpromazina e midazolam a dosi molto alte. Entrai in stanza e lo vidi in preda ad un delirium intenso; c’erano molti fattori sfavorevoli: precedente abuso di sostanze, agitazione mattutina invece che serale, dosi di farmaco già elevate. Decisi che era necessario saltare il fosso e dissi all’infermiera: “Ho bisogno di un altro accesso venoso stabile”.
“Impossibile, Dottore: si strappa tutto e non ha altre vene disponibili. Cosa vuol fare?”.
“Ho bisogno, per favore, di passare al terzo gradino della sedazione: 100 mg di fenobarbital diluiti in acqua ppi, non in fisiologica: facciamo una somministrazione a bolo”. Rimase in silenzio, poi mi disse: “Non l’abbiamo mai fatto: il paziente potrebbe morire”.
“Sì, ma sta morendo lo stesso e sta morendo male”. Mi guardò un momento, combattuta, poi annuì e andò in infermeria.
Tornò dopo pochi minuti con il farmaco e si offrì di somministrarlo lei: rifiutai, perché l’avevo vista incerta prima e non volevo che, se il paziente fosse morto in fretta, lei rimanesse segnata dall’angoscia e dai sensi di colpa. Somministrai la terapia e attesi: dopo trenta minuti, siccome il paziente non era ancora tranquillo, eseguii una seconda dose, che raggiunse l’efficacia dopo altri trenta minuti; potei così terminare il giro. Alla sera, uscendo, era tutto sotto controllo.
Lunedì avevo il giorno di riposo dopo il turno festivo e tornai martedì mattina: il clima in reparto era sereno; il Collega che aveva preso il mio posto per il lunedì aveva messo il fenobarbital in infusione continua, invece che in boli separati, ma la dose era la stessa. Il malato morì uno o due giorni dopo, senza aver bisogno di incrementi di dose.
Io spiegai a tutti, nella successiva riunione collegiale, il perché della mia scelta: il fatto che era una pratica inusuale, ma sostenuta dalla letteratura, nonché la correttezza etica dell’applicazione del principio dell’azione a doppio effetto. Ci fu un attimo di incertezza e ricordai loro: un’azione terapeutica è moralmente lecita se l’oggetto della sua scelta è buono (somministrare un farmaco per controllare un sintomo); se l’intenzione è buona (togliere il dolore o l’agitazione psicomotoria) e l’effetto collaterale (la morte) è previsto, ma non voluto; se l’effetto positivo (togliere il dolore o un altro sintomo grave) non si verifica attraverso l’effetto collaterale (la morte); se è presente una grave motivazione. Ricordai la letteratura scientifica sull’argomento, così come l’approccio tenuto da Cicely Saunders e dalla sua équipe, proprio fondandosi su questo principio, mutuato dalla teologia morale cattolica.
I dubbi finirono lì; in quel giorno, mi ero in qualche modo guadagnato i galloni sul campo e cominciai ad essere rispettato e considerato, non solo tollerato perché avevo una laurea in Medicina.
Come vedi, una storia molto semplice, ma per me esemplificativa.
Quanti malati sono effettivamente morti soffrendo molto, perché noi non abbiamo osato utilizzare il terzo gradino della sedazione palliativa? Quante volte non abbiamo avuto il coraggio di rischiare, perché non ce lo hanno insegnato? Quante volte è stata repressa l’iniziativa dei più giovani o dei sottoposti, perché i superiori preferiscono non compromettersi o perché desiderano solo mantenere il potere?
Abbiamo davvero necessità di imparare, sempre e da tutti i Colleghi. Dobbiamo tornare a capire che abbiamo una vocazione, che è una vocazione di servizio: noi siamo pagati per essere al servizio di chi soffre e muore; non dobbiamo avere paura della malattia, né della morte, che arriverà ineluttabile, soprattutto nei pazienti in Cure Palliative esclusive. Noi combattiamo la sofferenza, disposti a rischiare di persona: ce lo ha insegnato un’infermiera che, decenni fa, si sentì dire dal suo Primario: “Sono i medici che abbandonano i morenti! Lei deve studiare Medicina (sottinteso: per cambiare la mentalità medica)”.
E abbiamo anche bisogno che, al contempo, cessi il malvezzo di denunciare medici e infermieri per sete di denaro: così, si potranno di nuovo incontrare, al capezzale di ogni malato, la professionalità del personale sanitario e la fiducia di chi soffre. E torneremo, tutti, ad essere più umani: l’arte di prendersi cura e l’umiltà di lasciarsi curare, anche e soprattutto di fronte alla inevitabile morte, ci restituiscono infatti la realtà della nostra finitezza, così come la infinita dignità della nostra natura.
Un abbraccio.
Tuo,
Pietro Angelo Rossi
Per approfondire
Caro collega… Lettera di un palliativista n. 1
Caro collega… Lettera di un palliativista n. 2
Caro collega… Lettera di un palliativista n. 3
Caro collega… Lettera di un palliativista n. 4
Caro collega… Lettera di un palliativista n. 5
Caro collega… Lettera di un palliativista n. 6
Caro collega… Lettera di un palliativista n. 7
Caro collega… Lettera di un palliativista n. 8
Caro collega… Lettera di un palliativista n. 9
Caro collega… Lettera di un palliativista n. 10
Caro collega… Lettera di un palliativista n. 11