Mi permetto di azzardare alcune considerazioni su C’è ancora domani, il film di Paola Cortellesi – protagonista ed esordiente alla regia – e Valerio Mastandrea. Il tutto senza arrogarmi un ruolo da critica cinematografica.
Il fatto è che questo film è un caso che fa discutere e riempie i cinema mettendo in rilievo il ruolo delle donne chiamate per la prima volta il 2-3 giugno 1946 a votare sul referendum istituzionale e l’assemblea Costituente. Più in generale C’è ancora domani affronta temi ancora attuali (purtroppo) e perciò nelle corde del grande pubblico per quanto riguarda la condizione delle donne troppo spesso ancora oggi trattate senza rispetto. Addirittura violentate o uccise in una mattanza che continua, implacabile. Da qui il successo apparentemente inarrestabile che, mentre scriviamo, supera già i 30 milioni di incasso al botteghino e pone l’opera di Cortellesi tra i 10 film più popolari del nostro cinema.
Al centro del racconto c’è Delia, che per buona parte della trama ci viene presentata come vittima silenziosa e rassegnata di un marito manesco che sfoga su di lei frustrazioni e delusioni. Tre figli le danno parecchio lavoro. Una ragazza adolescente, Marcella, che vede la situazione e la critica con durezza e due maschietti più piccoli.
Il suocero dispotico e allettato peggiora la situazione trattandola come una serva e dando lezioni di bon ton al figlio, quel marito nervoso e intollerante, perché è stanco di sentire i lamenti di Delia. Meglio una punizione sola, ma forte, come ha fatto a suo tempo lui con la sua di moglie.
Mentre la vita le rema contro, Delia cerca di tenere la casa in ordine e si sobbarca diversi lavoretti per raggranellare qualche soldo extra. Solo per scoprire che il piccolo artigiano per il quale lavora confezionando ombrelli, paga più di lei il ragazzo neoassunto che ancora non sa fare nulla, perché lui è un “omo”. Alle botte si aggiungono dunque l’ingiustizia sul lavoro e le battute al vetriolo della figlia che vede chiaro nella situazione e non perdona alla madre di essere tanto docile e accondiscendente.
Come un documentario
Una storia semplice, questa di Delia, che va al cuore. Nella pellicola in bianco e nero, a dare una veste da documentario all’invenzione, ritroviamo il racconto ambientato in un quartiere un po’ da quadretto. Una casa povera e faticosa, una squadra di nemiche rose dall’invidia e un’amica sincera che poco può fare per aiutarla. E naturalmente non potevano mancare gli americani che presidiavano ancora la città e uno di loro – un ragazzo afroamericano – che si lega alla protagonista con conseguenze impreviste.
Più favola che neorealismo, più apologo politico che ritratto crudo di un dopoguerra complicato nel quale è successo molto più di quanto il film racconta, e che ha visto comunque l’importante esordio delle donne ai seggi elettorali. Accolto dall’altra metà del cielo con una gratitudine e un entusiasmo ben testimoniati dal successo della pellicola. A questo proposito ricordo le parole e i sentimenti di mia madre, così fiera di poter votare, così ligia al diritto-dovere di esprimere le proprie preferenze. Sentimenti decisamente appannati oggi, mentre l’assenteismo alle urne diventa segno di una frattura irrimediabile tra politica e società.
La semplicità vince sempre
Una storia semplice, dicevo, nella quale i litigi scattano per un’occhiata, le botte vengono amaramente trasfigurate in danze macabre e in mancanza di svaghi diversi le donne malignano all’ombra di alberi striminziti. Con tratti da commedia ad ammorbidire la veemenza della denuncia. Come la sconosciuta che si intrufola nel funerale del suocero di Delia e recita, rapita, il rosario, fino a quando viene accompagnata alla porta. E con i racconti che si colorano di dettagli sempre nuovi passando di bocca in bocca.
Il campanello d’allarme scatta quando Marcella, la figlia adolescente di Delia, rimpiange di non poter studiare e spera di migliorare la sua condizione sposando un giovane appena benestante, figlio del proprietario di un bar, che però è già bene avviato a diventare il classico marito-padrone nonché un potenziale picchiatore. Solo che questa volta la madre silenziosa, che da troppi anni subisce senza reagire, decide di salvare la sua creatura e interviene con una trovata che pare uscita dalla bacchetta di un illusionista.
Nel complesso C’è ancora domani è frutto di buon mestiere e dimostra di avere fiuto quanto basta per incuriosire e appassionare il pubblico. Del resto, noi spettatori non professionisti non siamo necessariamente in cerca di pellicole geniali, siamo felici di un film ben levigato, che restando di sicuro intrattenimento va a toccare problemi veri e chiede giustizia. Personalmente ho trovato forte il finale. Dopo avere prospettato una possibile fuga di Delia con il primo amore che si prepara a lasciare l’Italia, le ultime scene riportano all’emozione di un sincero impegno civile. Oltre che a un nuovo e più forte rapporto tra madre e figlia.
Ho visto che sui social molti si interrogano sulle scene conclusive, chiedendosi il perché e percome. A me sembra comunque che il tutto sfoci in una storia di felice alleanza tra donne. E comunque c’è di sicuro un domani per Paola Cortellesi, la regista-attrice dal tocco d’oro che sembra avere ridato fiato ai cinema asfittici, riempiendo sale vuote e riaprendo dibattiti ammuffiti. Di lei regista e sceneggiatrice – oltre che attrice – parleremo ancora a lungo e per altre occasioni.