A otto secoli dalla data tradizionale di composizione del Cantico delle creature di san Francesco (1224) l’Officina San Francesco di Bologna ha chiesto a tre poeti di parlare del loro rapporto con esso e del tema della natura nella propria poesia (si tratta di un ciclo di tre incontri svoltosi dal 4 al 18 maggio 2024 presso la sede della Biblioteca san Francesco; i poeti coinvolti sono stati, oltre all’autrice, Davide Rondoni e Isabella Leardini, ndr). Uno di loro (Davide Rondoni, ndr) aveva già scelto la Sera fiesolana: quell’adorazione francescana insuperabile in anni dove il paesaggio italiano – nel senso in cui era stato costruito con la natura – non era ancora stato distrutto e poteva concedere abbandoni dolcissimi come quelli di D’Annunzio, che vestì teatralmente un saio francescano per drammatizzazioni sincere e non sincere, narcisistiche sempre, intitolando alle Laudi cinque libri, dal risonante alone estetico.

Non a caso una quintessenza dell’Italia come paesaggio-terra spirituale forse guidò Pio XII nel primo anno di pontificato, 1939, a scegliere san Francesco e santa Caterina a patroni d’Italia, con la fiducia che avrebbero vegliato su di lei. Nonostante le esaltazioni della patria, essa fu gettata allo sbaraglio nella guerra che vide scatenarsi i totalitarismi, e i risultati sono rimasti indelebili.

Alle origini della poesia

Anche all’inizio della poesia c’era stata la lode, la glorificazione. Le Muse l’impongono a Esiodo nella Teogonia come prima cosa: «m’ispirarono voce/ divina, perché glorificassi ciò che sarà e ciò che prima è stato,/ e mi ordinarono di celebrare la stirpe dei beati che sempre sono,/ ma di cantare loro all’inizio e alla fine sempre». I Salmi, il Cantico dei Cantici, i Vangeli l’esaltano nel riconoscimento del Nome di Dio. Lode e glorificazione nascevano dal senso dell’unità del cosmo dove tutto si corrisponde e parla all’unisono: un’armonia che i Greci chiamavano Musiké. La sua esperienza estetica passava attraverso l’azione della poiesi, e il suo ethos.

Non si limitava alle sensazioni con cui si intende oggi, ma si legava a quanto c’è di poetico e di etico nell’uomo: era qualcosa che agisce sull’anima e la trasforma. La Laude di san Francesco esprime la sua totalità, riporta a uno stato di coscienza quasi perduto, una trasformazione dell’anima.

Per esprimere la Lode, bisogna avere udito le voci divine, esserne stati pervasi. Ma nulla c’è di più terribile di doverla rovesciare nell’Apocalisse, in reazione alla caduta dall’Eden, alla perdita della speranza, al desiderio estremo di palingenesi che prima vuole la catastrofe. Il secolo scorso l’ha ospitata in tutti i sensi, nella maledizione dei totalitarismi che hanno applicato le ideologie sulla vita e sui popoli, ma anche questo secolo sembra darsi da fare, nelle evoluzioni per il profitto.

Tuttavia, l’Apocalisse è un movimento perenne, come dimostra il libro che Giovanni scrive a Patmos verso la fine del primo secolo: libro che inghiotte tutte le visioni precedenti della Gloria scatenata nell’Agnello, in attesa della nuova Gerusalemme, accanto all’albero della vita. Però è vero che ogni tanto, avvertendo gli scricchiolii della storia, qualcuno rabbrividisce, presentendo crolli reali o presunti, e attraversa Apocalissi. Molto spesso i poeti dell’Eden sono i poeti dell’Apocalisse.

La natura di Caproni

Ho scelto così i Versicoli quasi ecologici di Caproni, usciti postumi nel 1991 in Res amissa. La Laude francescana è sottesa alla loro visione apocalittica, non estranea a me che sento profondamente il trauma della distruzione cercando di contrastarlo, ma che ho scritto anche per pura lode e gioia:

Non uccidete il mare,
la libellula, il vento.
Non soffocate il lamento
(il canto!) del lamantino.
Il galagone, il pino:
anche di questo è fatto
l’uomo. E chi per profitto vile
fulmina un pesce, un fiume,
non fatelo cavaliere
del lavoro. L’amore
finisce dove finisce l’erba
e l’acqua muore. Dove
sparendo la foresta
e l’aria verde, chi resta
sospira nel sempre più vasto
paese guasto: «Come
potrebbe tornare a esser bella,
scomparso l’uomo, la terra [1].

In me la prima percezione del sacro nasceva da una natura originaria dove mi riconoscevo: un’unità di collina sul mare, di genti posate come uccelli senza peso, simili ai gigli del campo del Vangelo di Matteo. Coincideva con la rivelazione della poesia nel “me-natura nascente” del bambino che apre gli occhi in un bene indiviso. Era il paesaggio di una convivenza di Eden dopo la Genesi, nella sua pace. Poi avveniva la distruzione fisica dei luoghi e delle persone, quella della parola che li dice, li accompagna, li trasmette. Un tradimento doppio: fu il dolore. E fu un’Apocalisse rivissuta, per rigenerare le cose, la parola della poesia. Traspariva nichilismo dalle razionalizzazioni materialistiche di destra e di sinistra, dalle parole d’ordine strumentali dalle ideologie, dai processi politici, sociali, tecnologici del neocapitalismo bancario.

Svuotavano la parola creante – verbo, logos e dabar – che animava la bellezza della poesia e ogni altra cosa: la natura stessa e il paesaggio, definito “decoro ambientale”. A quella parola avevano dato voce i classici che amavo e che venivano considerati desueti. San Francesco era il primo dei classici italiani e della Musiké di una gloria speculare nell’universo. Era impossibile non accoglierne l’eco anche muto: però gli ho dato voce di quasi protagonista soprattutto nel mio ultimo libro, I fanciulli dietro alle porte, dove compare come l’esempio supremo del fuoco, e nelle tracce che ha lasciato sulle vie per Rimini, e a Rimini.

Il rinnovamento di san Francesco

Il primo movimento di san Francesco è stato quello di un soldato sconfitto: prima nella guerra tra Assisi e Perugia, poi come seguace di Gualtieri di Brienne per la IV crociata. Deluso da ogni frivolo ideale cavalleresco, in prigionia e malattia ha sogni e visioni. Vede in sogno armi: quelle di Davide, al servizio del Dio degli eserciti, scrive Tommaso da Celano nella prima Vita redatta per la canonizzazione nel 1228. Cerca un tesoro e una sposa. Il tesoro è la vera religione, la sposa è la Povertà abbracciata misticamente.

Dio gli chiede di leggere il Padre nostro in una grotta. Dopo avere letto la preghiera degli inizi, che Gesù rivela ai discepoli, Francesco discende nella terra: spelonche, sepolcri, chiese abbandonate: abissi come case, una catabasi non tra i morti, ma nel più basso grado dei viventi: tra i poveri, gli umili, i lebbrosi: servo, pazzo, buffone: verme, non un uomo, come il Salvatore si era definito nei Salmi.

Ma sprofondando nel crollo, ha continuato a guardare sempre di più il cielo, come un fuoco celeste.

Ha provato l’esperienza dell’Apocalisse. Tommaso da Celano è sicuro che sia un uomo nuovo che ha azzerato tutto: come se prima di lui non avesse soffiato lo spirito che trasformava le parole del Vangelo nel linguaggio di chiese e cattedrali, pitture, statue, pietre lavorate, e non ci fossero stati né Ugo né Riccardo di San Vittore, Guglielmo di Saint-Thierry, Bernardo di Clairvaux, Aelredo di Rievaulx, Ildegarda di Bingen ad accendere il fuoco dell’amore: il mondo era avvolto dall’ombra.

Prima di Francesco c’è la tenebra, anche di chiesa e di monaci, ed ecco che lui appare come una luce dalle tenebre. Per alcuni anni con lui giunge «lo splendore della luce»: il fuoco dello Spirito Santo, il fuoco di Cristo, il fuoco della parola di ogni giorno. Parla a Dio senza intermediari come Cristo nei Vangeli.

Chiesa nuova e Chiesa vecchia

È un innovatore ma non un demolitore: non vuole costruire una Chiesa nuova, ma riparare e restaurare la Chiesa vecchia e cadente, secondo il suo sogno. Affonda nell’antico. Attraversa il mondo come un animale senza casa, rivolgendosi a tutte le creature animate e inanimate. Esorta «le messi e la vigna, le pietre e i boschi e tutte le belle campagne, le fonti irrigue e ogni verde giardino» ad amare ed esaltare Dio, che vede ovunque. Conosce la loro lingua: ogni lingua sonora e silenziosa, che gli parla tra cielo e terra.

Comprende quella degli animali, che gli corrispondono: senza ricorso alla magia di Salomone, e senza bisogno di dare loro nomi come Adamo, perché non vuole dominarli né possederli; può esercitare su di loro il potere dell’incantamento come Orfeo, ma ciò che viene prima, è la fraternità che li accomuna con l’uomo, entrambi chiamati al Reditus nella grande Arca della Salvezza, attraverso l’Oceano divino, verso il nuovo Eden, come scrive Giovanni Scoto nel Periphyseon.

Specialmente tra loro ama gli uccelli, «le più liete creature del mondo» che «non seminano né mietono», e tramutano con gioia in canto di lode la sua stessa ammirazione della natura. Assomigliano ai Serafini, i più vicini a Dio nel Primo mobile cristallino, che ricevono dall’Empireo le idee, e cantano incessantemente le lodi di Dio: «Santo, Santo, Santo è il Signore degli eserciti. Tutta la terra è piena della sua gloria» (Isaia, 6, 3). Predilige le manifestazioni dell’umiltà, della povertà, e prima di tutte le forme dell’Agnello che toglie i peccati del mondo.

La sua rivoluzione è fedeltà: ha il culto dell’esattezza. Difende la scrittura, che è nobile quanto la natura, come pensavano gli ebrei del Medio Oriente. Tutte le scritture sono venerabili, anche quelle non cristiane, perché contengono le lettere «con le quali si compone il nome di Cristo». Quanto alla propria scrittura, è esigentissimo a pretenderne il preciso rispetto.

La Parola incarnata

Dalla bocca di Francesco le parole escono limpide come dalla bocca di Gesù, che è la Parola della Verità. Non conosce altra lingua che non sia quella, che proviene dalla Bibbia e dai Vangeli, e la trasforma nella parola del Verbo che è la luce e che le tenebre non riconoscono: le parole dell’Agnello, della mitezza, del grado zero dell’umiltà fraterna. Solo l’umiltà prepara alla gloria: humiliate vos ad benedictionem: “umiliatevi perché siate benedetti”. Lo spiega sant’Agostino, nel Trattato 51 sul Vangelo di Giovanni 12-26: «Altitudinem glorificationis praecessit humilitas passionis»: «Occorse che l’umiltà della passione precedesse l’altezza della glorificazione. Perciò aggiunse: “In verità, in verità vi dico che se il granello di frumento caduto in terra non muore, resta solo, ma se muore, da molto frutto”».

Il Cristo di san Francesco non è solo il Pantokrator, ma soprattutto l’Agnello in cui si identifica.

San Francesco è un Serafino che parla a Dio senza intermediari, se non quelli della natura creata e delle scritture: la duplice parola di Dio che si è fatto carne. Una parola che “Verbo” non riesce a tradurre, da dabar: «Quando diciamo dabar, dobbiamo sentire il fondamento di ogni cosa, perché ogni cosa ha un dabar, un fondo e un senso; e, dicendolo, raggiungiamo la cosa stessa. Dabar è una forza irresistibile, come il fuoco che brucia la paglia: una forza attiva, creativa, luminosa, che foggia ogni evento della storia: una forza soprattutto veritiera; e ha bisogno di una rivelazione e di un annuncio, che raggiungano ogni persona.

Non è una personificazione. La parola è un evento che si fa carne, Gesù Cristo, il quale non pronuncia o porta o confida parole, ma è egli stesso la parola vivente. Come dice il Vangelo di Giovanni, il verbo è Dio».

Sente nel tradimento di quella doppia parola la vera morte, la morte doppia. Perciò la sua reazione è un sentimento di Apocalisse: diventa il nuovo Agnello con tutta la mitezza e l’ira della carità infuocata, per rigenerare il cosmo. Ma il suo Cristo Agnello è l’opposto del giustiziere di Giovanni che pigia nel gran tino dell’ira di Dio carne di uomini, simile allo Jahvè di Isaia che indossa vesti rosse di sangue umano. In Francesco la forza dell’amore è tale che è necessario che egli sia come colui che ama.

Sacrificio, gioia…

Solo in Francesco il desiderio bruciante del martirio, che lo spinge in Oriente, e che sarà compensato con le stimmate, è attraversato da una espressione di gioia, di canto, che sembra non avere mai né un’ombra né un dubbio: una gioia sempre aurorale, in ascesi, una lode che sale, che vola, come gli alati che ama con uno slancio angelico.

Francesco è il “carbone ardente” di Dio. Nutre nelle viscere il sole-Cristo: è una fonte di luce, di fuoco che ribolle e si riversa fuori di lui, ora nelle parole, che fanno accorrere i primi discepoli, trascinano i Papi, affascinano gli animali che comprendono e ubbidiscono; ora negli occhi del cuore, con cui penetra i segreti di tutte le creature e profetizza: luce in cui trasforma sé stesso, come quando entra di notte nella casa in forma di carro di fuoco splendentissimo, sul quale è un gran globo come un sole, e volteggia trapassando tutti i cuori e le coscienze con la sua luce pura e affettuosa.

e stimmate

L’immenso potere di trasformazione e di immaginazione di questo sole, al quale ubbidiscono le creature, al cui cenno gli elementi mutano la loro natura, nasce dall’obbedienza a Gesù: è una trasformazione dalle viscere. Tommaso insiste su questo movimento profondo delle viscere, da cui scaturiscono dolore e gioia, lavacri di lacrime purificatrici, fino alle stimmate. Il suo culmine è alla Verna. Francesco vede su di sé un uomo simile a un serafino con sei ali, inchiodato a una croce. Il bellissimo serafino lo guarda amoroso, e lui è lieto e triste, alterna gioia e dolore per il contrasto di quell’amore e quella passione.

Non sa decifrare il senso della visione, né osa dire che il serafino crocifisso sia il Cristo, che resta in silenzio. Ma intanto l’immagine si è insediata dentro di lui nelle sue viscere, si riproduce: dalle mani e dai piedi spuntano neri chiodi di carne e sul costato si apre la rosa della ferita di Cristo.

Nella vita di Bonaventura da Bagnoregio, del 1263, Francesco conosce una seconda visione: in mezzo alle ali del serafino appare il crocefisso che è proprio il Cristo: gli parla dicendo cose che mai dovrà rivelare, mentre sorride pieno di amabilità, e Francesco prova letizia, avvolto dalla gioia soprannaturale. La visione scompare. È il vuoto. Ma nel cuore è rimasto «un mirabile ardore». Ed ecco, in quel preciso momento, avvengono le stimmate. Non è detto se in entrambe le versioni Francesco insieme alle stimmate abbia conosciuto l’essenza di Cristo, oltre alla sua passione. È certo però che il respiro del Cantico sembra emanarne il profumo.

1 Giorgio Caproni, Res amissa, Garzanti 1991, pp. 234, € 28.