Dante, regia di Pupi Avati; con Alessandro Sperduti, Sergio Castellitto, Ludovica Pedetta; 94’, Italia 2022.
Boccaccio, in un episodio della sua vecchiaia, compie un viaggio per dare dieci fiorini d’oro a Beatrice Alighieri, in risarcimento da parte della città di Firenze, all’esilio e alle umiliazioni subite dal padre, morto trent’anni prima. Il viaggio segue un percorso lungo quanto una vita, le cui tappe, fatte di persone e di luoghi che hanno conosciuto il poeta, sono seguite da Boccaccio come una Via Crucis, ogni stazione fonte di esperienze, dati e sensazioni che gli ispireranno il Trattatello in laude di Dante.
È questa la fonte sfruttata da Pupi Avati in Dante e per lo stesso motivo, l’indagine sulla vita del poeta fiorentino inizia da un altro poeta, anche lui fiorentino.
Dante uomo vs Dante poeta
La tecnica di far iniziare un film con qualcosa di lontano dal focus principale della storia, in parte anche cronologicamente, ha il doppio effetto di spiazzare lo spettatore e di farlo ragionare sui possibili collegamenti tra ciò che si sta guardando e l’oggetto del film (non tutti conoscono il ruolo che Dante ebbe nella vita di Boccaccio, tanto più che i due non si conobbero mai personalmente). Di conseguenza a questa scelta narrativa si pospone l’arrivo del protagonista, la cui importanza cresce nell’attesa della sua apparizione.
Dante non si farà attendere sullo schermo, sul quale effettivamente si mostra con un aspetto e un atteggiamento peculiari, convogliati nell’ottima recitazione di Alessandro Sperduti, uno dei migliori interpreti del film. Tuttavia, dopo lo schermo del cinema ce n’è uno molto più grande e severo, anni e anni di filtri che la figura di Dante ha attraversato arrivando in tutta la sua epicità ai giorni nostri. Per questo motivo ci sono pochi film sulla vita del grande poeta e sulla sua Commedia; il suo statuto di massimo maestro della letteratura italiana ne rende difficile il confronto e lascia spazio a due possibilità: rappresentare Dante come quello che era, un essere umano, in un corpo non prestante, con una vita piena di miserie e di difficoltà; oppure fare leva sulla figura mistificata, quasi sovrannaturale, costruita ai giorni nostri e riempire la narrazione di questo sapore celestiale.
Pupi Avati non prende una direzione specifica, quasi indeciso tra le due possibilità.
Dall’inizio fino ai tre quarti di film abbiamo davanti agli occhi il primo Dante, umano, talvolta rozzo, misero tanto nell’insoddisfazione dei suoi desideri quanto nella vita in cui è costretto a barcamenarsi tra la guerra e l’esilio.
Nell’ultimo quarto si assume il secondo Dante, specialmente quando Boccaccio (Sergio Castellitto) giunge finalmente al cospetto di Beatrice Alighieri (Valeria D’Obici) e i due conversano sull’antico poeta nel buio di un chioschetto, in un silenzio pieno di mistero, e nella notte una miriade di luci invade l’atmosfera come una folla di lucciole.
In realtà sono i minuti finali a costituire il valore maggiore di tutto il film, nei loro silenzi e nelle atmosfere ben costruite. Lo spettatore non trova la stessa cura e lo stesso coraggio registico in tutto il resto della storia, a partire dalla recitazione, non certo scandalosa o poco professionale ma colma di attori dalla dizione perfetta e l’intonazione impostata, che non solo stridono coi personaggi umili che interpretano, ma anche con la performance più accorata e apprezzabile dei pochi interpreti principali (oltre a Sperduti e Castellitto si menzionano Valeria D’Obici nei panni di Beatrice Alighieri, Enrico Lo Verso come Donato degli Albanzani ed Erika Blank come Gemma Donati).
Il montaggio che zoppica
A livello di montaggio si sente un forte imbarazzo nell’effettuare i cambi di scena, risolti nei casi migliori con un semplice taglio su nero e, dove non lo si può usare, con stacchi impacciati su micro-scene che non hanno altro scopo da quello di passare alla sequenza successiva. Per esempio, nella prima parte del film, Boccaccio parla con un cocchiere di un avvenimento nella vita di Dante. Si passa al flashback che racconta l’avvenimento e poi si ritorna di nuovo sulla carrozza solo per vedere una sequenza di mezzo secondo dove il cocchiere riparte con un colpo di briglia e crea così un movimento adatto a passare alla prossima scena. Lo stesso impaccio lo si vede anche nella gestione dei dialoghi, specialmente tra Boccaccio e i personaggi minori. Un esempio lampante è in una delle prime scene, quando il poeta chiede a un carpentiere se Dante fosse passato da quelle parti. Il carpentiere non si prende un secondo per ripescare nella memoria i ricordi, ma neanche per reagire alla domanda, risponde immediatamente come se stesse leggendo e con la voce perfettamente impostata di cui si diceva prima. Così tutti i personaggi secondari, molti dei quali sono visibilmente ridoppiati e quindi ancora più staccati dai loro panni.
Unendo una recitazione forzata, una regia timida, forse per la grandezza dell’argomento trattato, e un comparto fotografico e musicale che non peccano ma non si distinguono, si ottiene un buon film televisivo che giustifica la sua distribuzione cinematografica solo nei minuti finali.
Ad Avati si deve però riconoscere il merito di aver rappresentato un personaggio che, nonostante la sua importanza, è poco presente nel cinema; non c’era quindi un archetipo a cui fare riferimento e il regista ha dovuto agire su un territorio quasi inesplorato.
Come è difficile raccontare Dante
Considerato poi che su Dante e sui personaggi attorno a lui è stata prodotta un’infinità di documenti, il lavoro di selezione e filtraggio dei materiali non è stato facile. In questo lavoro la più grande virtù del regista è stata di aver evitato lo snocciolamento dei passaggi più conosciuti della Divina Commedia, che ha poco screen time in tutto il film, lasciando spazio alle altre opere di Dante e alla sua biografia, lontane dagli stereotipi scolastici.
Da questo punto di vista sono stati molto interessanti gli approfondimenti sull’infanzia di Dante e sul matrimonio forzato di Beatrice, che hanno mostrato frammenti di vita in genere poco trattati nella discussione generale. In definitiva Dante è un’esperienza interessante per chiunque sia interessato e voglia approfondire la vita del poeta fiorentino, meno per chi voglia vivere un’esperienza estetica. Il film avrebbe avuto una più bella accoglienza in ambiente televisivo proprio perché non c’è al suo interno la forza estetica che richiede il grande schermo e la cui mancanza è molto più sentita perché per affrontare questo gigante della letteratura italiana sarebbe stato necessario uno sforzo altrettanto grande, uno spirito che, se non può raggiungere i picchi poetici che tenta di esplorare, cerchi almeno di tendere in quella direzione.
Se in futuro una missione del genere verrà tentata, sarà merito dei pochi coraggiosi registi e produttori che si sono impegnati nella rappresentazione del poeta fiorentino, e quindi anche di Pupi Avati e del suo Dante.