È primo pomeriggio quando arrivo nella strada che sale al complesso del tempio del Ginkaku-ji a nord di Kyoto. Il sentiero acciottolato si snoda lungo un tranquillo torrente ombreggiato dai tanti ciliegi che all’inizio di aprile sono finalmente sbocciati, dando l’impressione di camminare sotto una fitta nevicata, mentre nell’acqua scorrono piano i petali come fiocchi di neve: mi trovo sul Tetsugaku no Michi (“Sentiero del Filosofo” in italiano), un luogo che attira sempre tanti turisti. Sono i primi giorni di caldo, le persone si sono ritrovate qui per passeggiare, fare le foto sotto la nevicata di petali e per raggiungere il Ginkaku-ji, noto come Tempio d’argento, in contrapposizione al tempio d’oro, il Kinkaku-Ji nella zona occidentale. Nel centro di uno splendido giardino giapponese, con un laghetto irregolare in cui nuotano pigramente le carpe koi, le pietre che affiorano a pelo d’acqua, gli alberi che curvano le chiome sullo specchio d’acqua, i ponticelli in pietra o fatti da grossi massi e i sentierini che si snodano intrecciandosi, si erge il tempio zen del Ginkaku-Ji, la cui costruzione fu avviata nel 1482. Il tempio ha una struttura molto particolare: è una pagoda a due piani, la parte inferiore nel classico stile giapponese con i pannelli scorrevoli e il tatami, mentre quella superiore è in stile cinese: scopro con mia sorpresa che l’influenza cinese sulla cultura giapponese, nel corso dei secoli, è stata pervasiva, in quasi tutti i campi: dal cibo, alla scrittura, all’architettura. Proprio questi giardini, così particolari, sono un elemento caratteristico del Giappone: in ogni città, piccola o grande che sia, si possono trovare, magari nascosti nei parchi; sono delle vere e proprie oasi di tranquillità, dove trovare un po’ di silenzio dal caos della strada o dei quartieri più vivaci, come per esempio a Tokyo.
I giardini giapponesi, oasi di pace
I parchi e i giardini della grande metropoli contrastano con le immense strade, i grattacieli e la confusione di Tokyo e i suoi rumorosi e affollati quartieri come Akihabara, Ginza o Shibuya, con il suo famosissimo incrocio dove centinaia di persone camminano in una sorta di danza senza sincronia. Passare qualche ora in uno di questi quartieri è come entrare in un lunapark: cammini circondato da centinaia di persone, sovrastato da alti grattacieli e dagli enormi cartelloni pubblicitari luminosi e di frequente con il sonoro. Il quartiere di Ginza poi è quello dello shopping di lusso, si susseguono a ritmo sostenuto i palazzi delle più importanti case di moda, ognuno con il suo stile eccessivo, da Armani a Hermes, a Gucci. Akihabara è invece il quartiere dei giovani, con molte sale gioco: oltre alle classiche slot machine, ci sono interi piani con centinaia di postazioni per i videogame, da quelli di lotta, alle corse con le macchine e quelli di simulazione di strumenti musicali: è sorprendente la quantità di ragazzi e ragazze ma anche adulti, professionisti in giacca e cravatta e persone di una certa età, immobili con gli occhi incollati allo schermo e immersi in un martellante frastuono di suoni e rumori che mi chiedo come faccia a non venirgli mal di testa.
In Giappone a fine marzo è tempo di fioritura dei ciliegi: i sakura vero e proprio simbolo della nazione, tanto da diventare i protagonisti anche di dolci – ho assaggiato una deliziosa cheesecake alla ciliegia – di bibite, di souvenir. Migliaia di persone, non solo dall’estero ma anche dalle altre zone del paese, si riuniscono nei viali di Tokyo come a Meguro o nei parchi come a Ueno, per ammirare i rami carichi di petali rosa, bianchi, di tante varietà di ciliegio. Nei grandi parchi che costellano la metropoli, c’è sempre un vasto spazio dedicato ai silenziosi giardini giapponesi anche se quello che mi è rimasto maggiormente negli occhi è il meraviglioso parco di Kenroku-en a Kanazawa, una “piccola” città da 100 mila abitanti sulla costa occidentale dell’Honshu, affacciata sul Mar interno del Giappone. Per tanti anni è stata la capitale culturale del paese e qui a fianco del grande terrapieno che ospita il complesso del castello – più volte ricostruito nel corso dei secoli dopo le tante distruzioni a causa incendi o terremoti e tuttora in costruzione – si apre questo grande giardino dove poter gironzolare. Ci siamo andati di prima mattina, per sfuggire la folla – tra laghetti, alberi carichi di foglie e talmente antichi da essere incurvati sull’acqua e aver bisogno di grossi pali di sostegno e con un piccolo torrente da cui le pietre affiorano per metà. Durante la nostra passeggiata, ci siamo imbattuti in alcuni giardinieri con larghi cappelli di paglia dalla curiosa forma conica che si occupavano con cura del giardino, togliendo le erbacce e potando gli alberi. La precisione e la cura che i giapponesi osservano nei confronti dello spazio pubblico è una delle prime cose che salta all’occhio arrivando in questo paese: dalla pulizia delle strade nonostante l’assenza dei cestini – è vietato fumare all’aperto, ogni tanto ci sono dei gabbiotti trasparenti dove le persone possono sostare per una sigaretta – a quella dei bagni pubblici, all’ordine con cui le persone attendono un treno oppure scendono e salgono sull’autobus o sulla metropolitana, alla gentilezza con cui si salutano o ti aiutano se hai qualche difficoltà: non sono luoghi comuni, è una realtà. E i turisti si adeguano velocemente, sintomo che l’educazione civica non è per forza un’utopia. Durante la mia permanenza, avrò sentito quattro clacson in tutto, e quando ho usato la bicicletta un giorno a Kyoto ho notato con stupore che le macchina attendevano di superarmi per avere lo spazio e passare lasciando più di due metri di spazio a una velocità contenuta: non ho mai percepito un senso di insicurezza e le ciclabili erano solo disegnate per terra.
Da Hiroshima a Osaka
Per non parlare poi del famoso treno super veloce, lo Shinkansen, che arriva a toccare la velocità di 320 km orari e la cui precisione nel rispettare gli orari è maniacale: l’ho preso con una certa emozione e curiosità per andare da Kyoto a Hiroshima, e come me c’erano molte persone con il cellulare in mano per registrare l’arrivo di questo treno, dalla strana forma allungata. Il viaggio verso Hiroshima è durato circa due ore e ammetto che non vedevo l’ora di arrivare in questa città, tra i simboli del paese. Hiroshima si estende lungo il ramificato delta dell’Ota, ci sono tanti ponti. Passeggiare per le vie del centro offre l’occasione di imbattersi continuamente in lapidi o cippi che forniscono informazioni di ogni tipo sul tragico giorno della A-bomb, cui questa città è strettamente legata: nel male, per il dolore e la distruzione provocate e nel bene: Hiroshima è tra le città in prima fila nella lotta per il disarmo nucleare e per la pace. Vicino al nostro albergo c’era il cippo che indicava che la bomba era esplosa proprio in quel punto a 600 mt d’altezza, mentre più in là affacciate sul fiume si stagliano le mure sventrate dell’Ufficio della Prefettura con lo scheletro della sua cupola. L’unica struttura che rimase in parte in piedi dopo l’esplosione e divenuto il biglietto da visita della città. Vederlo emergere da lontano fa una certa impressione e fa da guardia al vasto parco della Pace che si estende verso sud e verso il mare, costellato da monumenti: in ricordo dei bambini vittime della bomba o dei tanti morti cinesi e coreani, vittime delle violenze giapponesi durante l’occupazione del Novecento. Chiude idealmente il parco, il Memoriale della Pace, il museo che ripercorre quei tremendi giorni dell’esplosione e i giorni successivi, e con una intera sezione dedicata alle fasi della guerra nucleare. La visita a questo museo è davvero molto impegnativa dal punto di vista emotivo, ma necessaria.
Il lungo viaggio in Giappone si chiude con la tappa obbligata a un evento sportivo. Sono stata a lungo indecisa di quale sport acquistare il biglietto: in Giappone, infatti, lo sport nazionale è il baseball, importato qui dagli americani già alla fine dell’Ottocento. Disseminati in tutte le grandi città si aprono i campi da baseball dove è frequente vedere squadre locali, bambini e semplici amici con mazze, palle e guantoni che si sfidano. L’orizzonte è interrotto dalle alte reti verdi che impediscono che le palline battute fuori campo finiscano in strada. Moltissime persone indossano la maglia del pigiama, la tipica casacca a maniche corte con i bottoncini, la divisa da baseball in tutto il mondo. E molti indossano quella bianca e blu con la scritta Dodgers sul petto e il nome Otani sulla schiena: I Los Angeles Dodgers sono una delle franchigie più famose e importanti della MLB e da quest’anno, tra le fila della squadra c’è Shoei Otani, classe 1994, originario di Oshu nel nord di Honshu la principale delle cinque isole del Giappone. È il più famoso e talentuoso giocatore giapponese, una vera e propria star in patria ma anche in America grazie ai suoi numeri. Per fare solo un esempio, Otani gioca nel doppio ruolo di lanciatore e battitore, una rarità, con statistiche da capogiro in entrambe le fasi, tanto da valergli il premio di mvp dell’American League per ben due volte, nel 2021 e nel 2023: il passaggio quest’estate dai Los Angeles Angels a Dodgers è stato tra i più clamorosi degli ultimi anni. Quest’anno è tra i favoriti per la vittoria delle World Series. Si capisce quindi il motivo per cui in Giappone la sua maglia ce l’abbiamo praticamente tutti.
Una squadra da capogiro
Purtroppo, non c’è stata l’occasione di vedere il baseball, non mi sono quasi mai trovata in una città nel momento in cui la squadra locale giocava in casa, ho quindi scelto il calcio e la mia scelta è ricaduta su Osaka e la sua splendida squadra neroblu, il Gamba. Frequentando spesso gli stadi italiani e tutta la trafila burocratica per poter accedervi, tra tessera, tornelli, comune di residenza, settore ospiti, mi sorprende sempre la semplicità con cui è possibile entrare in uno stadio, proprio come succede negli Stati Uniti: è possibile acquistare con in click il biglietto. Felice di questa semplicità mi avvio in una tarda mattinata assolata verso il Panasonic Stadium, nel nord di Osaka, al limitare di un vasto parco che fu la sede dell’Expo del 1970 (e che si terrà a Osaka il prossimo anno). Dopo un breve viaggio a bordo della splendida monorotaia, lo stadio compare all’improvviso mentre attraversiamo un ponte, all’ingresso controllano i biglietti e in dieci minuti siamo al nostro posto. Forse perché sono le tre del pomeriggio, ci sono tantissimi bambini e inoltre fuori dallo stadio c’era il deposito custodito per i passeggini, cosa che in Italia sarebbe fantascienza. L’atmosfera è serena.
Non sapevo cosa aspettarmi dentro, senz’altro non quello che ho visto: sulla mia sinistra, la curva nord dello stadio era una distesa di sciarpe, bandiere e maglie neroblu, una folla immensa impegnata già da mezz’ora prima dell’inizio della partita in cori e canti di incitamento, decisamente in contrasto con lo stile pacato giapponese. Ma soprattutto lungo i cornicioni che scandiscono il ritmo delle gradinate, sono appesi tanti striscioni con scritte in italiano “sempre insieme a te Osaka”, “Facci un goal”, “Forza lotta vincerai”, ne sono rimasta spiazzata. Ho poi scoperto che il calcio giapponese prende molta ispirazione da quello italiano e nello specifico il Gamba prende spunto dalla tifoseria dell’Atalanta. All’ingresso delle squadre, applausi e cori, i giocatori a metà campo si inchinano ai tifosi. La partita è molto vivace e si chiude con il pazzo goal vittoria dell’Osaka al 99° minuto, tra l’entusiasmo della folla. A fine partita, i giocatori hanno fatto il giro di campo inchinandosi davanti ai tifosi e una volta arrivati davanti alla curva si fermano per dieci minuti a ricevere applausi, a cantare i cori. Una volta uscita dallo stadio, di ritorno verso la stazione nella calda luce del tramonto a poche ore dal volo che mi riporterà in Italia, mi trovo a progettare già il mio prossimo viaggio nella terra dei sakura.