È stato un grande successo del 2023, e la sua corsa continua nel 2024: La formula di Socrate (Mondadori, Milano 2023, pp. 132, euro 18) di Cristina Dell’Acqua, grecista, docente di grande esperienza e volto noto anche della televisione, ci propone una riflessione sull’attualità degli insegnamenti di Socrate, colui che portò la filosofia dal cielo alla terra, dalla natura agli uomini, fra le piazze e alle vie della città-mito per noi: l’Atene classica. Ne parliamo con l’autrice.
Professoressa Dell’Acqua, immagini di incontrare una persona che non abbia mai sentito parlare di Socrate: come spiegherebbe, nel modo più semplice possibile, la sua “formula”?
In sintesi, la “formula di Socrate” consiste nell’interrogarsi e nell’esercitare il dubbio: e dubitare scardina le certezze date per assodate. Se ci pensiamo, quella di Socrate è stata una enorme rivoluzione: prima di lui, la filosofia si occupava di problemi se vogliamo anche astratti, e molto complessi – pensiamo a Parmenide, a Zenone; ma con Socrate ogni uomo, nell’incontro con sé stesso, nello sforzo di conoscersi, diventa soggetto e insieme oggetto della filosofia.
Un mio amico, colto lettore, ma anche amante dei paradossi spinti all’estremo, arrivava a dire che gli Ateniesi avevano fatto bene a condannare Socrate. “Immagina”, diceva, “di essere intento nel tuo lavoro, concentrato su un problema complesso, quand’ecco che arriva questo tizio senza arte né parte che ti interrompe, ti assilla, ti sfinisce di interrogativi: come non detestarlo?!”.
In effetti, questo paradosso coglie, ovviamente estremizzandolo, un dato reale, perché l’effetto che Socrate doveva fare sui suoi interlocutori è proprio questo: destabilizzare. In fondo, il motto socratico: “Conosci te stesso”, è rischioso da applicare, se si vuole conservare il quieto vivere. L’incontro con sé stessi, infatti, è destabilizzante: spesso lo si evita, lo si aggira, perché si può anche scoprire qualcosa di impensato, o che non piace. Quando però il tuo amico sottolinea che Socrate fosse un individuo in fondo sfaccendato che andava a destabilizzare la quiete altrui, coglie, sempre attraverso il paradosso, un altro tratto tipico del mondo greco, non solo del pensiero di Socrate: la grande rilevanza data al pensiero, alla riflessione.
Al contrario, tipico è l’affondo per perfezionare quegli aspetti della riflessione greca che si ritenevano degni di una elaborazione ulteriore, perché forieri, soprattutto, di un qualche vantaggio pratico. In fondo, lo dice Cicerone nell’incipit delle Tusculanae Disputationes, là dove vuole rimarcare in che cosa consista lo specifico della civiltà romana: i Romani hanno accolto e perfezionato, del mondo greco, solo quelle conoscenze, nozioni in quibus elaborarent, cioè nelle quali potessero operare un perfezionamento significativo. Una differenza abissale.
Esattamente. Quando ero alle prime armi con l’insegnamento, una cara amica filosofa mi ha dato questa chiave di lettura, con una attualizzazione molto semplice, se vogliamo, ma che coglie nel segno: i Romani, oggi, sarebbero coloro che guardano un tramonto per fotografarlo, i Greci per osservarlo.
Se Socrate vivesse oggi, secondo lei. che cosa farebbe, chi sarebbe?
Sarebbe forse un giornalista bravo e coraggioso. E scomodo. Certo, penso che se l’avessi conosciuto di persona, anche io, forse, l’avrei trovato insopportabile – un po’ come dice il tuo amico, e forse non sarei stata tanto entusiasta di venire assillata e interrotta in ogni momento.
Insomma, il Socrate di Senofonte – che pure fu suo allievo – è molto meno brillante, meno provocatore, meno ironico del Socrate di Platone (un indizio che ci fa capire come non bisogna giudicare sempre il valore dei professori dai risultati dei loro allievi!), però noi, alla fine, siamo più affezionati e affascinati dal Socrate platonico.
Certo, il “nostro” Socrate è il Socrate di Platone; e anche se forse questo allievo straordinario e geniale ha amplificato quei tratti di personalità che lo avevano affascinato (al punto tale di imperniare di fatto tutta la sua opera, e la sua vita, sulla figura del maestro), bisogna anche dire che Platone, per bocca di Alcibiade nel Simposio, ci ha lasciato una testimonianza splendida, e dice una cosa vera e valida ancora oggi, quando fa affermare al giovane e bellissimo Alcibiade che Socrate è come una di quelle statuette che rappresentano i Sileni: esteriormente certo non belle, ma che dentro celano un tesoro.
Insomma, potremmo quasi dire che Platone, nel Simposio, ha inventato i “belli dentro”?
Direi di sì. Pensiamo all’ideale aristocratico della kalokagathia, per cui i guerrieri, i nobili, si definivano – ed erano rappresentati – come kaloi kai agathoì, “belli e buoni”: pensiamo nell’Iliade al bell’Achille e a Tersite, soldato semplice che compare nel libro II del poema: sgradevole, petulante, e brutto. Non è certo riduttivo parlare di “belli dentro”, di “bellezza interiore”, più importante di quella esteriore, in una società come la nostra, ferocemente basata sull’apparenza, sul successo sui social, in cui chi è avvertito come meno vincente dal punto di vista dell’immagine rischia persino di subire bullismo, come purtroppo spesso avviene tra adolescenti e giovani. Insomma, Socrate, come lui stesso si definiva, è un “tafano”, ma un “tafano d’oro”, mi verrebbe da dire.
Il che, poi, chiarisce il senso della copertina della Formula di Socrate. Certo, doveva essere un autentico assillo avere a che fare con questo personaggio.
Certo che sì! Ma pensiamo anche alle enormi conseguenze che derivano dall’altro suo motto, dal suo “sapere di non sapere”. Essere consapevoli di non sapere significa essere perennemente assetati di conoscenza, essere curiosi, della vita e di quello che ci circonda. Fare proprio questo secondo motto di Socrate ci porta ad aprire gli occhi sul mondo, a renderci conto che nella vita non ci siamo solo noi, che c’è anche dell’altro. Questo “altro” ha a che fare con la spiritualità di ciascuno. D’altro canto, quando una persona è predisposta alla curiosità e alla conoscenza, anche dal punto di vista della chimica dei neurotrasmettitori qualcosa cambia, e si diventa più ricettivi a conoscere.
Potremmo parlare di una sorta di serendipità…
Esattamente: perché chi si pone nell’atteggiamento ricettivo, qualcosa scopre e impara, anche se forse non era quello che si proponeva di cercare o di conoscere: ma è bello che, per tutta la vita, sino all’ultimo, siamo destinati a fare sempre qualche nuova scoperta.
Un altro insegnamento di Socrate valido ancora oggi?
Un altro elemento che mi ha affascinato della personalità e del metodo di Socrate, per cui non lo schiaccerei subito, questo tafano, è la centralità del dialogo. E il dialogo ha, quale componente fondamentale, l’ascolto. Ascoltare è determinante, per tutti, per essere insegnanti, madri, mogli, persone che sano entrare in sintonia con l’altro, che sanno dare all’altro il giusto spazio.
A parte il Socrate del Simposio, che è asynkritos, “non paragonabile a nulla, fuori competizione” (come era definito Pindaro nei canoni dei poeti lirici), qual è il suo Socrate preferito?
Credo che sia quello che afferma che noi commettiamo il male per ignoranza del bene. Un concetto che ci affascina, ma che verrà smentito, per esempio, da Aristotele, o, sulla scena tragica, da Euripide, che mette in scena una Medea, lucidamente e perfettamente consapevole dell’enormità che sta compiendo. Questo è il bello del pensiero greco, il fatto che continua a porci domande di senso.
Sì, lei usa il verbo “accollarsi” per quanto riguarda il dubbio: e in effetti dubitare non solo è rischioso, perché mette in crisi le certezze acquisite; però il dubbio è anche il “padre della pace”, oserei dire: quando si dubita, come minimo ci si mette nei panni di un altro, e ci si mette alla prova per cercare di capirne le ragioni. Principi, questi, che si possono coltivare non solo per i massimi sistemi, ma anche nella quotidianità.
Eppure, se dovessi pensare a chi assimilare Socrate, direi che Socrate oggi è simbolo più vivo di quello che deve essere la scuola in sé, che dovrebbe non solo promuovere la conoscenza, ma che dovrebbe aiutare e spronare alla conoscenza di sé e alla acquisizione dello spirito critico, smentendo e smontando le cose e le opinioni che si danno per scontate. Se i medici fanno il “giuramento di Ippocrate”, noi insegnanti potremmo fare il “giuramento di Socrate. È molto curioso il fatto che, pare, uno dei tre accusatori che inchiodarono Socrate, avesse della vecchia ruggine con lui proprio per questioni riguardanti l’educazione del figlio: il figlio sarebbe stato indirizzato dal padre verso una attività che non sentiva a sé congeniale. Essersi sentito sottostimato, schiacciato dalle pretese del padre, negativo per il suo futuro. È quello che capita a chiunque non faccia venire alla luce la sua vera vocazione.
Di fatto, “la formula di Socrate” è ancora oggi attualissima, perché ci libera dal vincolo e dal peso di vivere una vita non nostra, che non sentiamo adatta a noi. Noi, certo, possiamo avere nelle prime fasi della nostra vita idee ancora poco chiare su quello che vorremmo fare o essere; ma possiamo capire che cosa proprio non vogliamo fare, che cosa proprio non siamo e non saremo. Si impara anche per sottrazione. E credo che, anche e soprattutto per la scuola di oggi, sia importante affiancare socratica-mente i nostri giovani a concentrarsi su chi vorranno essere. Come dico sempre ai miei studenti: “Prima di immaginare se vorrai fare l’avvocato, l’insegnante o l’astrofisico, pensa a quale tipo di avvocato, insegnante, astrofisico vorrai essere”.