Marcel Proust pubblicò questo testo sul Figaro il 16 agosto 1904. Si discuteva allora l’approvazione della legge di separazione tra Chiesa e Stato, che avrebbe avuto tra le altre conseguenze l’abolizione dei luoghi di culto e la confisca dei beni ecclesiastici. Letto in filigrana, l’articolo getta una luce folgorante sulla situazione presente, dove però l’espropriazione non è più tentata “da fuori”, da un governo ostile, ma si compie “da dentro”, nello smarrimento della nostra identità culturale.
Immaginiamo per un istante il cattolicesimo spento da secoli, le tradizioni del suo culto perdute. Sole, monumenti diventati inintelligibili di un credo dimenticato, restano le cattedrali, sconsacrate e mute. Un giorno, dei dotti riescono a ricostruire le cerimonie che si vi celebravano un tempo, per le quali quelle cattedrali erano state costruite e senza le quali non vi si trovava altro che lettera morta; allora, degli artisti, sedotti dal sogno di restituire momentaneamente la vita a quei grandi vascelli che erano sprofondati nel silenzio, vogliono renderli, per un’ora, il teatro del dramma misterioso che vi si svolgeva, fra canti e profumi e, in una parola, si impegnano a fere per la Messa e le cattedrali, ciò che i felibri hanno fatto per il teatro d’Orange e per le tragedie antiche.
Così dunque, riprendendo l’ipotesi, ecco dei dotti che hanno saputo ritrovare il significato perduto delle cattedrali: le sculture e le vetrate riprendono il loro senso, un profumo misterioso galleggia nuovamente nel tempio, vi si svolge un dramma sacro, e la cattedrale si rimette a cantare. Il governo sovvenziona a ragione, e a maggior ragione di quanto non faccia per le rappresentazioni del teatro d’Orange, dell’Opéra-Comique e dell’Opéra, questa risurrezione delle cerimonie cattoliche, di un tale interesse storico, sociale, plastico, musicale, e alla cui bellezza soltanto Wagner si è avvicinato, imitandola, nel Parsifal.
Comitive di snob si recano nella città santa (sia essa Amiens, Chartres, Bourges, Laon, Reims, Beauvais, Rouen, o Parigi) e, una volta all’anno, avvertono l’emozione che in altri tempi andavano a cercare a Bayereuth e a Orange: gustare l’opera d’arte proprio nello scenario costruito per essa. Sfortunatamente, in quel luogo, proprio come a Orange, possono soltanto essere dei curiosi, dei dilettanti; qualsiasi cosa essi facciano, in loro non alberga più l’anima di un tempo. Gli artisti che sono venuti a eseguire i loro canti, gli artisti che interpretano il ruolo dei sacerdoti, posso essere istruiti, possono aver penetrato lo spirito dei testi. Ma, malgrado tutto, non ci si può impedire di pensare come quelle feste dovessero essere più belle nel tempo in cui c’erano dei veri sacerdoti a celebrare le funzioni, non per dare ai letterati un’idea di quelle cerimonie, ma perché avevano nella loro virtù la stessa fede degli artisti che scolpirono il Giudizio Universale nel timpano del portico, o decorarono le vetrate dell’abside con la vita dei santi. Come tutta quanta l’opera doveva parlare più distintamente, più correttamente, quando un intero popolo rispondeva alla voce del sacerdote e si piegava sulle ginocchia quando suonava la campanella all’Elevazione, non come in queste rappresentazioni retrospettive, da freddi figuranti stilizzanti, ma perché coloro che assistevano al rito, come il sacerdote, come lo scultore, credevano.
Ecco che cosa si direbbe se la religione cattolica fosse morta. Ma essa esiste, e per figurarci quello che era, viva e nel pieno esercizio delle sue funzioni, una cattedrale del XIII secolo, non abbiamo bisogno di farne il quadro di ricostruzioni retrospettive forse esatte, ma fredde. Ci basta entrare a qualsiasi ora, mentre si celebra una funzione. La mimica, la salmodia, il canto non sono qui affidati ad artisti: sono i ministri stessi del culto che officiano, animati non da un senso estetico, ma dalla fede, con un risultato estetico ancora superiore. Non si potrebbero auspicare figuranti più vivi e più sinceri, poiché è il popolo che si fa carico di rappresentare il dramma sacro. Si può dire che, grazie alla persistenza, entro la Chiesa cattolica, degli stessi riti e, d’altra parte, della fede cattolica nel cuore dei francesi, le cattedrali non sono soltanto i più bei monumenti della nostra arte, ma i soli che vivono ancora la loro esistenza integrale, che siano rimasti in rapporto con lo scopo per il quale furono costruiti.
Ora, sembra che la rottura del governo francese con Roma renda prossima la messa in discussione e l’adozione di un disegno di legge secondo il quale, nel giro di cinque anni, le chiese potranno essere e saranno in molti casi sconsacrate; il governo non solo non sovvenzionerà più la celebrazione dei riti sacri nelle chiese, ma potrà anche trasformarle in tutto quello che vorrà: museo, sala per conferenze o casinò.
Quando il sacrificio della carne e del sangue di Cristo, il sacrificio della Messa, non sarà più celebrato nelle chiese, non ci sarà più vita in esse. La liturgia cattolica è un tutt’uno con l’architettura e la scultura delle nostre cattedrali, perché queste come quella hanno lo stesso valore simbolico. In un libro ammirevole, L’arte religiosa nel XIII secolo, Émile Mâle analizza così, secondo il Razionale degli uffici divini di Guillaume Durand, la prima parte della festa del Sabato santo:
Fin dal mattino, si inizia con lo spegnere tutte le lampade nella chiesa, per sottolineare che l’antica Legge, che rischiarava il mondo, è ormai stata abrogata. Poi, il celebrante benedice il fuoco nuovo, figura della nuova Legge. Lo fa scaturire dalla selce, per ricordare che Gesù Cristo è, come dice san Paolo, la pietra angolare del mondo. Allora, il vescovo e il diacono si dirigono verso il coro e si fermano davanti al cero pasquale. Questo cero, ci informa Guillaume Durand, è un triplice simbolo. Spento, esso simboleggia insieme la colonna di nube che guidava gli Ebrei durante il giorno, la Legge antica e il corpo di Gesù Cristo. Acceso, esso significa la colonna di luce che Israele vedeva durante la notte, la nuova Legge e il corpo glorioso di Gesù Cristo risorto. Il diacono allude a questo triplice simbolismo recitando, davanti al cero, la formula dell’Exultet.
Ma insiste soprattutto sulla somiglianza fra il cero e il corpo di Gesù Cristo: ricorda che la cera immacolata è stata prodotta dall’ape, al contempo casta e feconda come la Vergine che ha messo al mondo il Salvatore. Per rendere visibile agli occhi la similitudine fra la cera e il corpo divino, preme dentro il cero cinque grani d’incenso che ricordano al contempo le cinque piaghe di Gesù Cristo e i profumi acquistati dalle pie donne per imbalsamarlo. Infine, egli accende il cero con il fuoco nuovo e, in tutta la chiesa, si riaccendono le lampade, per rappresentare la diffusione della nuova Legge nel mondo. Ma questa, si dirà, è una festa eccezionale. Ecco l’interpretazione di una cerimonia quotidiana, la Messa, che, lo vedrete, non è meno simbolica:
Il canto grave e triste dell’Introito apre la cerimonia: afferma l’attesa dei patriarchi e dei profeti. Il coro dei chierici è il coro stesso dei santi della Legge antica, che sospirano dopo la venuta del Messia, che essi non dovevano vedere. Il vescovo allora entra, e appare come l’immagine vivente di Gesù Cristo. Il suo arrivo simboleggia l’avvento del Salvatore, atteso dalle nazioni. Nelle festività solenni, vengono portate davanti a lui sette torce, per ricordare che, secondo la parola del profeta, i sette doni dello Spirito Santo posano sul capo del Figlio di Dio. Egli avanza sotto un baldacchino trionfale, i cui quattro portatori possono paragonarsi ai quattro evangelisti. Due accoliti camminano alla sua destra e alla sua sinistra, e rappresentano Mosè ed Elia, che si mostrarono sul monte Tabor ai lati di Gesù Cristo. Essi ci insegnano che Gesù aveva l’autorità della Legge e l’autorità dei profeti.
Il vescovo siede sul suo scranno e resta in silenzio. Non sembra partecipare affatto alla prima parte della cerimonia. Il suo atteggiamento reca un insegnamento: con il suo silenzio ci ricorda che i primi anni della vita di Gesù Cristo trascorsero nell’oscurità e nel raccoglimento. Il suddiacono, intanto, si è diretto verso il pulpito e, voltosi a destra, legge l’Epistola ad alta voce. Intravediamo qui il primo atto del dramma della Redenzione. La lettura dell’Epistola è infatti figura della predicazione di san Giovanni Battista nel deserto. Egli parla prima che il Salvatore abbia iniziato a far sentire la sua voce, ma parla solo agli Ebrei. Così, il suddiacono, immagine del precursore, si volge verso il Nord, che è il lato dell’antica Legge. Quando la lettura è finita, si inchina davanti al vescovo, come il precursore si umiliò davanti a Gesù Cristo. Il canto del Graduale, che segue la lettura dell’epistola, si riferisce ancora alla missione del Battista, e simboleggia le esortazioni alla penitenza da lui indirizzate agli Ebrei, alla vigilia dei tempi nuovi. Infine, il celebrante legge il Vangelo: momento solenne, perché è qui che comincia la vita attiva del Messia; la sua parola risuona per la prima volta nel mondo. La lettura del Vangelo è figura stessa della sua predicazione. Il Credo segue il Vangelo come la fede segue l’annuncio della verità. I dodici articoli del Credo si riferiscono alla vocazione dei dodici apostoli.
Gli stessi paramenti che il sacerdote porta sull’altare – aggiunge Male –, gli oggetti che servono per il culto sono altrettanti simboli. La pianeta, che si mette sopra tutti gli altri abiti, è figura della carità che è superiore a tutti i precetti della legge e che è essa stessa la legge suprema. La stola, che il sacerdote si passa attorno al collo, è il giogo leggero del Signore; e, come è scritto che ogni cristiano deve amare questo gioco, il sacerdote bacia la stola quando la indossa e quando la toglie. La mitria a due punte del vescovo simboleggia la scienza che egli deve possedere dell’Antico e del Nuovo Testamento; vi sono attaccati due nastri per ricordare che la Scrittura dev’essere interpretata secondo la lettera e secondo lo spirito. La campana è la voce dei predicatori; la struttura cui è sospesa è figura della croce. La corda, fatta di fili ritorti, significa la triplice intelligenza della Scrittura, che dev’essere interpretata nel triplice senso: storico, allegorico e morale. Quando si prende la corda in mano, per scuotere la campana, simbolicamente si esprime questa verità fondamentale: che la conoscenza delle Scritture deve sfociare nell’azione. Così tutto, fino al minimo gesto del sacerdote, fino alla stola che egli indossa, è in accordo per simboleggiarlo con il sentimento profondo che anima l’intera cattedrale.
Mai uno spettacolo simile, specchio tanto gigantesco della scienza, dell’anima e della storia, fu offerto agli sguardi e all’intelligenza dell’uomo. Il simbolismo stesso coinvolge anche la musica che si fa allora sentire nell’immensa nave e i cui sette toni gregoriani sono figura delle sette virtù e delle sette età del mondo. Si può dire che una rappresentazione di Wagner a Bayereuth (e a maggior ragione una di Émile Augier o di Dumas sulla scena di un teatro pubblicamente sovvenzionato) è poca cosa rispetto alla celebrazione di una messa solenne nella cattedrale di Chartres.
Senza dubbio soltanto chi ha studiato l’arte religiosa del Medioevo è in grado di analizzare pienamente la bellezza di un simile spettacolo. E ciò basterebbe perché lo Stato avesse l’obbligo di vegliare sul suo perpetuarsi in eterno. Lo Stato sovvenziona i corsi del Collège de France, che tuttavia sono rivolti soltanto a un ristretto numero di persone e che, a fianco di questa completa e integrale risurrezione data da una Messa solenne in una cattedrale, sembrano assai fredde. E, a paragone dell’esecuzione di simili sinfonie, le rappresentazioni dei nostri teatri, ugualmente sostenute dallo Stato, corrispondono a bisogni letterari assai meschini. Ma affrettiamoci ad aggiungere che quanti possono leggere come in un libro aperto il simbolismo medievale, non sono gli unici per i quali la cattedrale viva, cioè la cattedrale scolpita, dipinta, che canta, rappresenta il più grande degli spettacoli. E così, si può anche ascoltare la musica senza conoscere l’armonia. So bene che Ruskin, mostrando quali ragioni spirituali spieghino la disposizione delle cappelle nell’abside delle cattedrali, ha detto: «Non potrete mai soggiacere all’incanto delle forme dell’architettura se non entrate in rapporto simpatetico con i pensieri da cui esse sono nate». Non è meno vero che noi conosciamo tutti il caso di un ignorante, di un semplice sognatore, che entra in una cattedrale senza cercare di capire, ma che si lascia andare alle sue emozioni, provando un’impressione senza dubbio più confusa, ma forse altrettanto forte. Come testimonianza letteraria di questo stato dello spirito, molto differente, con ogni certezza, da quello del dotto che passeggia nella cattedrale come dentro una «foresta di simboli, che lo osservano con sguardi familiari» [C. Baudelaire, Corrispondenze, ndt], ma che consente tuttavia di trovare nella cattedrale, all’ora delle funzioni, un’emozione vaga, ma potente, citerò la bella pagina di Renan intitolata Doppia preghiera:
Uno dei più begli spettacoli religiosi che si possano ancora contemplare ai nostri giorni (e che non si potrà presto più contemplare, se la Camera vota il progetto in questione) è quello che presenta, al calar della notte, l’antica cattedrale di Quimper. Quando l’ombra ha colmato le navate laterali del vasto edificio, i fedeli dei due sessi si riuniscono nella navata centrale e cantano, in lingua bretone, la preghiera della sera su un ritmo semplice e toccante. La cattedrale è illuminata soltanto da due o tre lampade. Nella navata, da un lato, ci sono gli uomini, che se ne stanno in piedi; dall’altro, le donne inginocchiate formano come un mare immobile di cuffie bianche. Le due metà si alternano nel canto e la frase cominciata da uno dei due cori è conclusa dall’altro. Quel che cantano è bellissimo: quando lo udii, mi sembrò che, con qualche leggera modifica, potesse essere adattato a tutti gli stati dell’umanità. Fu soprattutto questo che mi fece fantasticare di una preghiera che, per mezzo di determinate variazioni, potesse convenire ugualmente agli uomini come alle donne.
Fra questa vaga réverie, non priva di fascino, e le gioie più consapevoli del “conoscitore” dell’arte religiosa, vi sono certo molti stadi intermedi. Ricordiamo, giusto per farne memoria, il caso di Gustave Flaubert che studia, ma per interpretarlo in un sentimento moderno, una delle più belle parti della liturgia cattolica:
Il sacerdote intinse il pollice nell’Olio Santo e cominciò a ungerla, prima sugli occhi … sulle narici avide della brezza e dei sentori amorosi, sulle mani che si erano dilettate di contatti soavi, e infine sui piedi, così rapidi quando correvano verso la soddisfazione dei suoi desideri, e che ora non avrebbero più camminato1.
Dicevamo che quasi tutte le immagini in una cattedrale sono simboliche. Alcune non lo sono affatto: sono quelle degli esseri che, avendo contribuito con le loro sostanze alla decorazione della cattedrale, vollero conservarvi per sempre un posto, per potere, dalle balaustre di una nicchia o dalla rientranza di una vetrata, seguire silenziosamente le celebrazioni e partecipare senza rumore alle preghiere, in saecula saeculorum. I buoi di Laon, avendo da soli trasportato cristianamente fino in cima alla collina su cui si erge la cattedrale i materiali che servirono a costruirla, vennero ricompensati dall’architetto che innalzò le loro statue ai piedi delle torri, da cui potete ancora oggi vederli, fra lo stormire delle campane e il ristagno del sole, levare con le teste cornute al di sopra dell’arco santo e colossale sino all’orizzonte delle pianure di Francia, la loro “meditazione interiore”. Ahimé, se essi non sono andati distrutti, che cosa non hanno visto in queste campagne dove la primavera non fa più fiorire che le tombe? Per degli animali era tutto quel che si poteva fare, collocarli così, all’esterno della chiesa, come se uscissero da una gigantesca arca di Noè che si sarebbe arenata su questo monte Ararat, nel mezzo del diluvio di sangue! Agli uomini si concedeva di più. Essi entravano nella chiesa, vi prendevano il loro posto che serbavano dopo la morte, e da dove potevano continuare, come nel tempo in cui erano vivi, a seguire il sacrificio divino, sia che, sporgendosi dalla loro tomba di marmo, volgano appena la testa dalla parte della lettura del Vangelo o dell’Epistola, potendo percepire, come a Brou, e sentire attorno al loro nome l’abbraccio stretto e infaticabile di fiori emblematici e di iniziali adorate, e mantenendo talvolta anche nella tomba, come a Digione, i colori squillanti della vita, sia che, nella parte bassa della vetrata, nei loro mantelli di porpora, di blu oltremare o di azzurro che imprigiona il sole, riempiano di colore i suoi raggi trasparenti e, d’improvviso, li rendano multicolori, mentre vagano senza meta nella navata che ne viene colorata. Nel loro splendore disorientato e pigro, nella loro palpabile irrealtà, restano coloro che hanno lasciato un dono e che, proprio per questo, avevano meritato la concessione di una preghiera eterna. E tutti loro vogliono che lo Spirito Santo, nel momento in cui discenderà nella chiesa, riconosca bene i suoi. Non si tratta soltanto della regina e del principe che portano le loro insegne, la corona o il collare del Toson d’Oro. I cambiavalute si sono fatti rappresentare mentre verificano il titolo delle monete, i pellicciai intenti a vendere le loro pellicce (si veda nell’opera di Mâle la riproduzione di queste due vetrate), i macellai nell’atto di abbattere dei buoi, i cavalieri mentre portano il loro blasone, gli scultori mentre intagliano capitelli.
Dalle loro vetrate di Chartres, di Tours, di Sens, di Bourges, di Auxerre, di Clermont, di Tolosa, di Troyes, bottai, pellicciai, speziali, pellegrini, lavoratori dei campi, armaioli, tessitori, tagliatori di pietre, macellai, fabbricanti di ceste, calzolai, cambiavalute, grande democrazia silenziosa, ostinati ad ascoltare l’ufficio divino, […] non udranno più la Messa che si erano assicurati donando per l’edificazione della chiesa la maggior parte dei loro beni. I morti non governano più i vivi. E i vivi, in preda all’oblio, cessano di adempiere ai voti dei morti.
1 Si tratta della celebre scena dell’unzione con l’Olio santo di Madame Bovary moribonda, ndt.