Una macchina per scrivere gialla, un gatto rosso acciambellato su una poltrona, un angolo di muro con post-it colorati da ogni parte del mondo, scaffali stipati di volumi rilegati accanto alle accese novità letterarie: è la libreria “Shakespeare and Company”, un luogo magico, tappa obbligata per tutti i cacciatori di libri che si aggirano fra i boulevards parigini.
C’è una frase che mi è rimasta impressa: “Un lettore quando viaggia cerca sempre le librerie”. Non so dire a quale autore debba essere ricondotta ma non a caso per dare inizio a questa nuova rubrica intitolata Case lontano da casa, cito la libreria indipendente più famosa, quella che ogni lettore conosce e sogna un giorno di poter vedere coi propri occhi.
È da quel maggio 2018, anno della mia prima visita a Parigi, che ho deciso che ogni viaggio successivo avrebbe avuto in programma una libreria o una biblioteca storica, delle case lontano da casa, un’immagine suggestiva di cui ci fa dono Livia Manera, giornalista letteraria del Corriere della Sera, nella sua incantevole prefazione a Shakespeare and Company (Neri Pozza, 2018), il memoir di Sylvia Beach (1887-1962), la fondatrice della libreria.
«Perché questo erano le librerie come Shakespeare and Company e Village Voice Bookshop: “homes away from home”, case lontano da casa»1.
Case lontano da casa vuole fare scoprire ai lettori di Studi cattolici quei tesori letterari sparsi in tutto il mondo – le librerie e le biblioteche – che incarnano la magia della lettura in ambienti unici e culturalmente ricchi. Un viaggio virtuale tra libri polverosi, architetture storiche, soffici arredi, iniziative speciali e frequentatori particolari.
Una libreria è come una casa
Per iniziare ho provato a fare un gioco: ho chiesto all’intelligenza artificiale di stilare una classifica delle “gemme letterarie” da scoprire per poi incrociare i risultati con i miei sogni da lettrice. In prima posizione, al di sopra della Libreria “El Ateneo Grand Splendid” a Buenos Aires e la “Libreria Lello” di Porto, capeggiava sempre lei, la “Shakespeare and Company”, a detta dell’Ia «l’iconica libreria situata lungo la Senna che è stata un rifugio per scrittori emergenti e viaggiatori sin dalla sua fondazione negli anni Venti. Il suo calore e la vasta selezione di libri in lingua inglese la rendono un punto di riferimento per gli amanti della letteratura».
Il sogno di Sylvia Beach
La libreria affaccia su Rue de la Bûcherie, una via che scorre a fianco della Senna sulla celeberrima Rive Gauche, la parte a sud del fiume, a quell’altezza della Île de la Cité dove svettano le indistruttibili torri di Notre-Dame de Paris. Quella che vediamo oggi nel suo verde lucente e sotto lo sfavillio dei festoni di lucine, è in realtà la libreria “Le Mistral” fondata nel 1951 da un giovane soldato americano di nome George Whitman che, una volta venuto a conoscenza della storia di Sylvia Beach, ne rimase così affascinato da ribattezzare nel 1964 la libreria in “Shakespeare and Company”.
L’originale era situata un po’ più a sud, in rue Dupuytren, quello che sarebbe diventato presto il centro nevralgico della vita letteraria degli anni Venti, luogo d’incontro prediletto di scrittori americani, inglesi e irlandesi, emigrati nella Ville Lumière alla fine della Prima guerra mondiale.
Sylvia Beach, studentessa americana a Parigi, aveva un sogno: aprire una libreria francese a New York. Ma nell’era del proibizionismo statunitense e dopo intense chiacchierate con Adrienne Monnier, proprietaria della libreria “La maison des Amis des Livres”, capì che le sarebbe convenuto aprire una libreria americana a Parigi. Ed eccola qua, con il suo nome ironico, la moltitudine di ritratti scattati dal fotografo surrealista Man Ray, i mobili d’antiquariato e tanti, tantissimi libri, tutti rigorosamente liberi da ogni classificazione.
C’era chi li sfogliava, chi ne portava una copia in omaggio, chi al contrario li prendeva in prestito, perché la “Shakespeare and Company” era sì una libreria, ma funzionava anche da biblioteca, con un giro di abbonati la cui tessera d’iscrizione dava accesso al mondo meraviglioso e sostanzialmente infinito e a prezzo stracciato della cultura delle grandi menti del primo ventennio del Novecento.
La scommessa Ulysses
Ezra Pound, Gertude Stein, John Dos Passos, Scott Fitzgerald, Thornton Wilder, James Joyce, Ernest Hemingway erano alcuni degli assidui visitatori e amici che affollavano quel posticino in rue Dupuytren (più tardi, nel 1921, al numero 12 di rue de l’Odèon, a un paio di numeri di distanza da “La maison des Amis des Livres”), luogo di scambio di opinioni e una calorosa “casa lontano da casa”.
Per un certo periodo la Shakespeare and Company ha indossato anche i panni di impresa editoriale, acquisendo fama in tutto il globo per la pubblicazione – dopo molti rifiuti e censure nel mondo anglosassone – dell’Ulysses di James Joyce, un’opera di sette anni di travaglio che nel 1920 era considerata “oscena” e immorale (George Bernard Shaw la descrisse in una lettera come «il nauseante documento di un disgustoso stadio della civiltà»2).
Uscito in puntate fino al tredicesimo capitolo sulla rivista The Little Review, l’Ulysses aveva fatto scalpore per i suoi temi – desideri sessuali, tradimenti, gioco d’azzardo – e per un effetto domino gli editori si guardavano bene dal comprarne i diritti. Era un’impresa anche trovare un tipografo disposto a stampare l’opera perché all’epoca sarebbe stato ritenuto responsabile tanto quanto l’editore e soggetto alle conseguenze penali.
Con la sua gentilezza, Sylvia Beach riuscì nell’insperato: trovò un tipografo a Digione, Maurice Darantiere, disposto a scommettere sul progetto e a procedere con la stampa senza anticipi per mancanza di capitali della nuova editrice. Dell’opera ne vennero stampate mille copie con copertina blu3 come il colore della bandiera greca (il testo si ispira all’Odissea di Omero, come si può intuire dal titolo), una tonalità specifica trovata in Germania dopo molteplici ricerche.
Oggi, dopo mille peripezie di dattilografia, censura e pubblicazioni illegali, l’Ulysses è una pietra miliare del romanzo moderno, modello di riferimento di tutti quei testi che si costruiscono sul flusso di coscienza, sulla volontà di lasciar libero il pensiero oltre ogni limite, e la “Shakespeare and Company” insieme alla sua audace proprietaria acquisirono una grande notorietà che perdura fino ai giorni nostri.
I tempi bui della guerra
Durante la Seconda guerra mondiale, la libreria fu “racchiusa” in qualche scatolone al terzo piano della palazzina al 12 di rue de l’Odéon poiché Sylvia Beach, considerata dai tedeschi occupanti “nemica” per la sua nazionalità e “amica degli ebrei”, era stata minacciata di confisca del negozio e costretta quindi a “nasconderlo” in un appartamento vuoto. «Chi sa se i tedeschi vennero davvero a confiscare Shakespeare and Company? Se sì, non la trovarono. Ma alla fine vennero a prendere la proprietaria»4. Trascorse infatti sei mesi in un campo di concentramento e i due anni successivi, dal 1942 alla Liberazione di Parigi nel 1944, rimase nascosta: la libreria non aprì più i battenti.
L’attuale “Shakespeare and Company” è gestita da Sylvia Beach Whitman, la figlia di quel giovane soldato così ossessionato dalla memoria della libraia americana da darle il suo nome. Essa è la perfetta erede della sua antenata: un luogo di ritrovo capace di far sentire ogni visitatore, venuto da lontano, come a casa propria; un posto che ospita un festival di grande importanza, un contest letterario, svariati eventi e una caffetteria dove gustare un pain au chocolat circondati dai libri. Un rifugio dove chi ne ha necessità può fermarsi a leggere, scrivere e dormire.
Quando partiamo?
1 Sylvia Beach, Shakespeare and Company, Neri Pozza, Milano 2018, p. 13.
2 Ivi, p. 73.
3 Nello specifico: blu greco
4 Sylvia Beach, Shakespeare and Company, p. 262.