La verità del mondo. Gli ultimi romanzi di Cormac McCarthy
Nel 2022, Cormac McCarthy, dopo sedici anni dall’ultimo romanzo, ha pubblicato il suo ultimo lavoro, un dittico: Il passeggero e Stella Maris.
È necessario un previo sunto della trama. McCarthy infatti è tutt’altro che lineare nella sua frammentaria narrazione ove si intrecciano piani temporali diversi. È reticente e ambiguo. Talora i suoi personaggi mentono.
L’autore esordisce con due pugni nello stomaco del lettore. A pagina 1 c’è il cadavere di una ragazza impiccata nel bosco. A pagina 30 si intuisce la storia di un amore incestuoso tra questa ragazza, Alicia, e suo fratello Bobby Western. I due sin da piccoli sono attratti l’uno dall’altra. Fin dove si spingono? McCarthy è elusivo; si limita a disseminare indizi inquietanti qua e là.
Bobby (nato nel 1944) e Alicia (nata nel 1951) vivono sin dall’infanzia nel mondo dei numeri. Il padre è un brillante fisico del progetto Manhattan, che porterà alla bomba atomica; la madre lavora come operaia nello stesso progetto. Entrambi hanno una grande intelligenza.
Alicia è fuori da ogni scala. Legge a quattro anni. Scrive poesie. Suona il violino. Adora la musica (Bach in particolare). Attratta dal mondo della matematica, ne esplora confini inaccessibili alle persone normali. «Sbircia attraverso un alto pertugio di cui di rado gli archivi fanno menzione. Che cosa vedeva? Una figura al cancello? Ma la domanda è un’altra: la figura vedeva lei?». A dodici anni le viene diagnosticata una schizofrenia con allucinazioni. Ricoverata nella casa di cura per pazienti psichiatrici Stella Maris, nel Wisconsin, è sottoposta anche a elettroshock. A tredici anni studia matematica a Chicago. Si laurea dopo due anni. È ammessa al dottorato ma lascia l’università e va a Tucson, dove trova lavoro in un bar.
Anche Bobby è appassionato di matematica, senza raggiungere i livelli della sorella. Parlando con lei, «per un istante aveva intravisto il cuore della teoria dei numeri e sapeva che quel mondo gli sarebbe stato sempre precluso». A diciassette anni vince una borsa per il Caltech (California Institute of Technology di Pasadena) in fisica.
Nel 1968, i due vengono in possesso in modo rocambolesco di una cospicua eredità lasciata dai nonni paterni. Bobby abbandona gli studi e si trasferisce in Europa per correre nelle gare automobilistiche di formula 2. Alicia compra un violino Amati da 230.000 dollari e segue il fratello, dopo aver ottenuto una borsa di studio all’Institut des Hautes Études Scientifiques di Parigi.
Nel 1971, in una gara in Italia, Bobby è vittima di un grave incidente ed entra in un coma apparentemente irreversibile. Alicia rifiuta di firmare il consenso per spegnere le macchine che lo tengono in vita, torna negli Usa e, dopo una tappa alla Stella Maris, si uccide, la Vigilia di Natale del 1972. Non saprà mai che il fratello è sopravvissuto tornando a una vita normale.
Ritroviamo Bobby nel 1980 a New Orleans, tormentato dai ricordi della sorella e dal rimorso. Lavora come sommozzatore; una forma di espiazione: «la profondità lo spaventa». È circondato da amici che ci sono immediatamente simpatici: la canaglia Sheddan, che tra un imbroglio e l’altro non disdegna le citazioni dotte; il trans Debussy; lo sbandato Borman, che spara alle blatte, eccetera.
Durante un’immersione, scopre il relitto di un piccolo jet. Ci sono nove cadaveri ma i passeggeri dovrebbero essere dieci. Dove è finito il decimo? Da quel momento è perseguitato da misteriosi (e antipatici) agenti governativi, «tizi in giacca e cravatta con un’aria da missionari mormoni», che indagano sulla caduta dell’aereo. Il thriller è arricchito dall’interesse mostrato da questi agenti per il lavoro nel progetto Manhattan del padre (morto nel 1968). C’è qualche relazione con l’aereo caduto? L’appartamento di Bobby è perquisito più volte. Il suo conto corrente viene bloccato. Non gli resta che scomparire. Consigliato da Kline, un investigatore privato, fugge a Formentera, isola delle Baleari, dove vivrà solitario in un vecchio mulino mantenendo relazioni amichevoli con gli abitanti.
«Sei una tragedia greca mancata», gli aveva detto una volta Sheddan.
Un lavoro a metà
I capitoli del primo libro, Il passeggero, sono suddivisi ciascuno in due parti. Nella prima parte (in corsivo) la protagonista è Alicia. La narrazione, tranne nel primo capitolo, segue le tappe della sua vita dal 1963 al 1972. Compare sempre uno strano e buffo personaggio, accompagnato spesso da altri personaggi altrettanto bizzarri, il nano Talidomide Kid – alto un metro; pinne al posto degli arti superiori; cranio glabro, solcato da cicatrici – col quale Alicia intavola conversazioni che sembrano strampalate ma non lo sono affatto: è il modo beffardo-pagliaccesco-fuorviante col quale la protagonista parla con sé stessa: «È la mia creatura o io la sua?». Nella seconda parte, a caratteri normali, il protagonista è Bobby. Entra in scena proprio con quella immersione. Siamo nel 1980 quando ha trentasei anni.
Il secondo libro, Stella Maris, è costituito da sette colloqui, che avvengono nel 1972, tra Alicia e il dottor Cohen, psicologo che lavora nella casa di cura. Cohen è il personaggio meno riuscito; sembra messo lì soltanto per dare forma dialogica a temi complessi che avrebbero appesantito Il passeggero e ai quali l’autore non ha voluto rinunciare. McCarthy in Stella Maris, pur con frammenti di alta scrittura, non aggiunge niente di significativo alla storia e mette troppa carne sul fuoco (matematica, fisica, filosofia, eccetera) in modo talora supponente.
La ricerca di McCarthy
Lo stile arrembante dello scrittore è asciutto, senza un briciolo di retorica. La sua straordinaria capacità di descrizione fotografica evoca oggetti trasformandoli quasi in correlativi oggettivi.
Il coraggio dimostrato nello sviluppo del tema di fondo, la crisi dell’Occidente, è notevole. Essendo statunitense, McCarthy tira fuori i ricorrenti incubi con correlati sensi di colpa che hanno turbato i narratori nordamericani contemporanei (la guerra del Vietnam, l’omicidio dei Kennedy, il complottismo, la bomba atomica) e va oltre affrontando lo snodo fondamentale della crisi: la perdita del senso del mistero. Qui si imbatte nell’imprevisto. Il mistero, seppur occultato dalle scienze sperimentali, fa sempre capolino, soprattutto quando si parla di matematica e di filosofia. «Ho cominciato ad avere dubbi circa la visione materialistica dell’universo che avevo avuto», confessa Alicia. «Con l’intelligenza verbale si arriva solo fino a un certo punto poi c’è un muro, e se non capisci i numeri non vedi nemmeno il muro».
Per McCarthy c’è un inconscio che governa la persona e che è biologicamente molto più antico del linguaggio; quest’ultimo compare successivamente come «un’epidemia folgorante», come l’«invasione di un sistema parassitario». «L’inconscio è restio a comunicare con noi attraverso la lingua». Alicia, «risolveva qualcosa e una volta su due non era in grado di spiegare come ci era arrivata».
McCarthy si muove controcorrente in un ambiente scettico, pessimista e nichilista, che ha dimenticato le domande inquietanti sul mondo e sulla persona. McCarthy queste domande se le pone. «In vita mia non ho mai incontrato un mistero più grande di me stesso». «Quella di cui stiamo parlando in realtà è la situazione dell’anima». «Non so chi sia Dio. Ma non credo che tutto questo sia arrivato qui da solo». «Se qualcosa non ti avesse amato non saresti qui». «Penso che la bontà divina appare in posti strani».
Non offre risposte. Ma la risposta è un passo successivo: se ci sono le domande giuste, questa, prima o poi, potrebbe arrivare; se non ci sono domande non arriverà mai.
Mi piace immaginare Bobby, nel ritiro a Formentera, mentre avverte lo sbocciare di un barlume di speranza. «Ogni tanto si sedeva nella piccola chiesa di San Javier. Lunghi pomeriggi silenziosi». «Sto cercando di imparare a pregare». Mi piace immaginarlo mentre sperimenta nella sua intimità la realizzazione del desiderio inappagato della sorella: «vedere la verità del mondo prima di morire».