Ha esordito a teatro lo scorso novembre Acqua. Atto unico, la tragicommedia firmata da Giovanni Maddalena, Niccola Abbatangelo e Giampiero Pizzol. La prima messa in scena ha avuto come contesto il teatro delle Fonderie Limone di Moncalieri, parte del circuito del Teatro stabile di Torino. Da allora Acqua prosegue nel suo tour di repliche in tutta Italia. Abbiamo intervistato Giovanni Maddalena, autore poliedrico e uno tra i più sorprendenti filosofi in Italia.
Filosofo, critico letterario, politologo, saggista, scrittore, poeta? O tutto quanto insieme? Un po’ troppo, no?

Non lo so neanch’io. Non lo faccio apposta, direi. Mi capita così. Forse l’arco del ragionamento che sta alla base della mia filosofia del gesto, e che affianca al nostro ragionamento analitico quello sintetico e quello vago è un modo per dar ragione di questa varietà, di cui ho bi[1]sogno. Ragioniamo in tanti modi e così anche comunichiamo in tanti modi.

I tuoi Dialoghetti di uomini e dèi recentemente pubblicati con Rubbettino si collocano, con le debite proporzioni come dici tu, ma di fatto, nel solco di illustri precedenti come le Operette morali di Giacomo Leopardi e I dialoghi con Leucò di Cesare Pavese. Nella presentazione all’opera tu scrivi: «I Dialoghetti sono nati in me da soli come l’espressione di problemi, morali ed epistemologici, che non riuscivo a risolvere in un articolo di filosofia». Intendi che attraverso la letteratura è possibile l’espressione sintetica di un significato che il ragionamento analitico della filosofia non riesce a restituire?

Sì, esatto. La sintesi è primaria ed è un gesto, che sia un esperimento scientifico o un’opera d’arte. La conoscenza nell’essere umano è un’azione significativa, cioè un gesto, prima di essere una riflessione analitica. E prima ancora c’è la vaghezza, la fertilità dell’indistinto, il momento in cui non facciamo distinzioni; eppure, siamo già dentro l’avventura del conoscere. Ho letto recentemente la diatriba tra Croce e Pasco[1]li sull’estetica: sembrano opposti perché uno parla della bellezza come compiutezza di espressione e l’altro vede invece l’ispirazione poetica come un momento iniziale e non concettuale di meraviglia, stupore, domanda, emozione. In realtà Croce parla di poesia come ragionamento sintetico, e ne fornisce un’analisi. Pascoli parla della sua ispirazione poetica nella vaghezza. Al ragionamento sono necessari tutti e tre i momenti: sintetico, vago, analitico. La creatività è spesso vaghezza che dopo accede alla sintesi, cioè all’azione dello scrivere o del comporre o del performare, insomma al gesto.

Per il teatro hai esordito con le due tragedie I sicofanti e Irene (Marietti 2012). Qui come anche nel già citato Dialoghetti di uomini e dèi (Rubbettino 2023) prende forma la lotta tra il potere, l’ideologia, la menzogna da un lato e la libertà e la ricerca della verità dall’altro: il bene e la verità sono puntualmente assediati e attaccati dalla menzogna e dal potere. Perché questo tema ti sta particolarmente a cuore? Echeggiando il titolo di un tuo saggio scritto a quattro mani con il sociologo Guido Gili, ti chiedo: Chi ha paura della verità?

Penso che qui incidano tante vicende personali dolorose, che alla fine coincidono sempre con il tradimento nel mondo bellissimo della fede cristiana. Il peggio, il tradimento come emblema del male, che si annida nel meglio, la dolcissima rivelazione cristiana. Da qui è facile capire che se, perfino laddove c’è la fede, si annida la possibilità dell’ideologia in nome della quale si compie un tradimento, allora non c’è esperienza umana che sia priva del tradimento del vero. L’ideologia è la perenne tentazione dell’essere umano, che in essa altera la verità e ne deduce necessariamente conseguenze disumane. È la combinazione di errore – che è una verità isolata e impazzita, come diceva Chesterton – con la deduzione logica – che sottolinea molto Hannah Arendt – a creare il mostro ideologico. Le ideologie oggi sono di[1]verse da quelle del Novecento, ma sono altrettanto forti.

Ora è il momento di Acqua: la pièce teatrale si svolge in un atto unico, come dire knock out con un solo pugno. Da Sofocle a Ionesco, Pirandello, Oscar Wilde… come si inserisce Acqua nella tradizione degli atti unici della storia del teatro tragico? E cosa prediligi del teatro rispetto ad altre forme letterarie?

Il teatro è gesto supremo. È per definizione il luogo in cui tutto concorre al significato: le luci, i colori, i vestiti, le voci, i corpi, le parole, i nomi, i versi, i rumori. Quelli degli attori e quelli del pubblico. Anche la vita è teatro: non nel senso della dissoluzione della realtà quanto piuttosto nel senso di una supervalutazione della stessa. Nel teatro emerge di più la realtà perché se ne mostrano i significati puri in azione. L’atto unico da sempre è un grido, uno solo, spesso di dolore.

Tu hai iscritto il tuo testo nel teatro dell’assurdo: qual è a tuo avviso il valore aggiunto dell’assurdo? Che cosa permette di esprimere meglio?

Acqua si inserisce nel teatro dell’assurdo da un certo momento in poi. Prima è commedia, poi dramma e infine assurdo. Ma c’è anche una parte musical. È una contaminazione di generi. Tuttavia, la parte finale rientra senz’altro nella poetica dell’assurdo, che definirei così: il taglio o la sproporzione degli archi narrativi di alcuni personaggi – a cui mancano pezzi di storia, iniziali o finali, o che fanno o dicono cose sproporzionate – suscitando una doman[1]da a cui lo spettatore deve rispondere, ciascuno per sé. Per questo si aprono molte interpretazioni, ma non tutte, come diceva anche Umberto Eco ne I limiti dell’interpretazione, dove un po’ si pentiva degli eccessi interpretativi del post-moderno.

Dalle tue tragedie emerge una lettura profonda del reale, che mette in luce gli aspetti irrisolti, le ferite aperte, le domande potenti che abitano il cuore dell’uomo e che non sempre hanno la possibilità di esprimersi. Una declinazione del tema: quando il contesto (sociale, famigliare, comunitario) diventa condizionante al punto da esigere una conformazione di pensieri, atteggiamenti, parole che cosa permette una diversità, una salvaguardia dell’originalità e della libertà dell’individuo? Mi viene in mente la tua passione per Vasilij Grossman e il tuo lavoro su Vita e destino

Sì, da Grossman ho imparato moltissimo. In particolare, il fatto che siamo tutti tendenzialmente ideologici e un po’ traditori. Da Grossman, soprattutto dal suo rapporto con la madre, si capisce anche che la resistenza all’ideologia non è mai intellettuale. Gli intellettuali sono anzi spesso i primi a cedere, nei gruppi grandi e piccoli, alle ideologie piccole e grandi. Gli intellettuali, infatti, riescono sempre a trovare l’angolo giustificabile di ogni orrore, assolvendosi poi moralmente. La resistenza vera è di carattere affettivo. E, beninteso, riguarda anche gli intellettuali, quando la vivono in questo modo. È la celebre scorrettezza politica di Camus quando, riferendosi alla lotta algerina contro la Francia, disse: «Credo alla giustizia, ma prima della giustizia difenderò mia madre». È solo quando si è molto amati che si riesce ad affermare la verità più di sé stessi, anche nei propri sbagli.

Come è stato lavorare con Nicola Abbatangelo, regista cinematografico? Che cosa hai visto crescere o cambiare nella messa in scena del tuo testo?

Nicola è un vero amico e dunque c’è stata molta discussione. Prima, in fase di scrittura – svolta anche insieme Giampiero Pizzol, che si è rivelato decisivo – ci siamo confrontati anche duramente sull’allargamento della vicenda e del background dei personaggi. Dopo, in fase di realizzazione, sulla resa di certi temi o personaggi. Nicola ha deciso per esempio di aumentare la potenza del dramma e abbassare un po’ quella dell’assurdo. Io avrei fatto il contrario, ma sono scelte legittime e in ultimo l’opera teatrale è più del regista che dell’autore originario. Nicola ha un senso profondo dello spettacolo, nell’accezione migliore di questo termine: l’attrarre lo sguardo così da coinvolgere in una vicenda. Aristotele avrebbe concordato più con lui che con me: per una catarsi finale.