«Mi piace camminare per le strade di Londra…», scrive nel diario Virginia Woolf. Anche a me, molto: la “città irreale” di Eliot ha troppa bellezza da mostrare, ma la sua seduzione rifugge la verticalità, si cela in piccoli giardini sul retro, dai riquadri fioriti, in parchi che tagliano l’architettura bianca con rami e fronde verdi.
Con lei bisogna saper mettere in pratica Trivia, or the Art of Walking the Street of London, l’arte di camminare per le sue vie. John Gay scriveva nel Settecento ma un secolo dopo anche Dickens vagava ogni giorno, a lungo, per le vie della capitale: in ascolto di dialoghi, situazioni e personaggi.
Ogni ponte, chiesa o edificio londinese ha una storia da raccontare: come da un enorme diorama a cielo aperto, la città per me sprigiona echi di poeti, scrittori, pittori e artisti che ci sono vissuti e ne hanno scritto. Il suo cielo all’alba spalanca i toni di Turner, gli alberi dei parchi rievocano note di Purcell, al fluire del fiume – il “padre Tamigi” – si sovrappongono nella memoria l’incipit cupamente grandioso de Il nostro comune amico di Dickens o i versi dalla Waste Land di Eliot: «Nell’ora violetta, nell’ora della sera che contende / Il ritorno, e il navigante dal mare riconduce al porto…»
Il Parlamento riflesso nell’acqua splende nell’oro cupo, e il Big Ben non cessa di mandare i suoi colpi. Li ascolto e fingo di essere Clarissa Dalloway: «I plumbei circoli di suono si dissolvevano nell’aria…».
Per riposare un poco dal traffico e dalla calura di un’estate indiana m’inoltro a camminare per i parchi, i polmoni di Londra diceva William Pitt, Conte di Chatham. C’è tanto verde in questa città da non farti rimpiangere di non avere un giardino. I parchi mappano Londra come l’acqua fa con Venezia, sono la sua immagine vegetale.
E l’apertura a viaggi fantastici: James Barrie ha intuito Peter Pan nei giardini di Kensington, nelle fiabe scritte per le figlie di un collega insegnante, Lewis Carroll ha trasformato Alice Lidell nella figurina che tutti conosciamo. Septimus Warren Smith, Peter Walsh e Clarissa Dalloway s’incontrano – o s’incrociano – a Regent’s Park: avevo dodici anni la prima volta in cui ci sono entrata. Quasi sempre, uno scoiattolino con gli occhietti vispi mi attraversa la strada: lo considero un segno di buon augurio.
En passant, Lewis Carroll (pseudonimo di Charles Lutwidge Dodgson), è stato anche uno dei maggiori fotografi vittoriani: fotografò Tennyson, Dante Gabriel Rossetti, John Everett Millais e gli altri preraffaelliti.
Dai Rossetti ai War Poets
Già, Dante Gabriel. Uno degli highlights di questa visita è la mostra dedicata ai fratelli Rossetti, The Rossettis alla Tate Britain. Sì, perché i Rossetti sono quattro, nati tutti in rapida successione: Maria Francesca (1827), Gabriel Charles (1828), William Michael (1829) e Christina Giorgina (1830).
Fin da piccoli incoraggiati a esprimere il loro talento, nel disegno e nella letteratura, da grandi vorranno imitare tutti il padre, studioso dantesco, nel desiderio di pubblicare libri sul poeta italiano. Gabriel si spingerà al punto da assumere, a partire dal 1849, il nome Dante.
I bambini leggevano e disegnavano insieme. Nelle sue Reminiscences, William ricorda il loro rapporto, le letture e la passione familiare per il collezionismo: «Leggevamo gli stessi autori, coloravamo le stampe dello stesso libro, collezionavamo incisioni nello stesso album». I libri condivisi con le sorelle distinti solo dal nome “Rossetti”.
Tutti si dedicheranno alla poesia. Maria Francesca diventerà educatrice, William Michael brillante critico letterario, Gabriel fonderà la rivoluzionaria Confraternita preraffaellita di pittura.
Poetessa e animalista ante litteram (condannerà convinta la vivisezione), Christina sarà invece molto attiva nella sua comunità. Con forte consapevolezza delle disparità sociali, la sua poesia dà voce ai miseri e alle donne, all’epoca duramente svantaggiati. Principessa reale narra il disorientamento della protagonista divisa dalla realtà intorno a lei: «Tutti i muri che mi circondano si perdono in specchi, da cui ritrovo […] la stessa isolata figura, lo stesso viso che s’interroga…». Questa e altre poesie usciranno in un volume pubblicato per raccogliere fondi in favore degli operai del Lancashire, messi in difficoltà dalla “crisi del cotone”. Bellezza drammatica, quella delle poesie di Christina: moderne per idee e dizione, decise come il raggio di una lampada.
Poi le tele di Dante Gabriel, tripudio di colorate sensazioni, ritraggono l’amata Elizabeth Siddall, musa, moglie e compagna. Pelle candida e chioma color ruggine, gli occhi verde smeraldo di Elizabeth fissano il visitatore da molte tele, indimenticabili. È sempre lei la celebre Ofelia, ritratta nell’acqua tra i fiori da John Everett Millais.
A Westminster ho indugiato al Poets’ Corner presso il memoriale in ardesia dedicato ai War Poets. Sono sedici eroi, nomi incisi in bianco sulla lastra scura e contornati dalla frase che uno di loro, Wilfred Owen, intendeva apporre quale prefazione ai suoi versi: «Il mio tema è la guerra e la pietà della guerra. La poesia è nella pietà». Vicini a loro, la leggenda: Byron, T.S. Eliot, Wystan Auden.
Alla National Portrait Gallery, ampliata da un grandioso lavoro di ristrutturazione, i War Poets mi hanno accompagnato ancora: in mostra sulla stessa parete preziose fotografie di Rupert Brooke e Wilfred Owen, accanto all’autoritratto di Isaac Rosenberg.
Per andare verso nord da King’s Cross il treno esce presto dalla città e s’ immette nella periferia di case di mattoni rossi e campagna verde punteggiata da macchie chiare di qualche pecora.
Arrivando a Cambridge, la prima cosa apparsa al finestrino è il cubo di pietra della mitica Cambridge University Press.
All’Archivio del King’s College, con diligenza britannica l’Archivista mi aveva preparato una messe di documenti da visionare, fotografie, corrispondenza. Un colpo al cuore poter sfogliare le lettere autografe di Rupert Brooke, molte scritte a matita. Scorrevo la grafia ondulata e immaginavo quando, pochi metri più in là, lui e altri amici hanno portato in barca Henry James nei backs, i prati dietro il College dove scorre il Cam, forse seguiti anche loro dallo sguardo placido di alcune mucche rossicce. Mescolandomi agli studenti, ho camminato tra i prati antistanti il College, le guglie d’oro della Cappella puntate contro un limpido cielo azzurro.
Alla scuola di Rugby frequentata da Brooke, tra gli altri cimeli del Museo che la gentilezza della curatrice Jenny Hunt ha aperto solo per me, ho visto il suo berretto da cricket. Ma lì dove il rugby è nato loro continuano bizzarramente a chiamarlo football.
Omaggio a Keats
Rientrata a Londra, la casa di John Keats a Hampstead è un pellegrinaggio da compiere ogni volta in cui mi trovo nella capitale. Oggi un museo, la casa bianca e dalle finestre ampie a cui si accede dal giardino conserva l’atmosfera di ritiro dal centro e privacy circondata di silenzio: all’epoca di Keats il quartiere era periferico, amato da pittori e tintori di stoffe. Un gradino, pochi passi e si entra nel salottino sul retro dove è stata scritta l’Ode to a Nightingale. Davanti al camino, le sedie sono disposte nella stessa posizione del quadro di John Severn, l’amico pittore che accompagnerà John in Italia a morire, in cui è ritratto mentre legge. Il porpora dominante all’interno contrasta con il verde dell’erba e degli alberi fuori. C’è un silenzio reverente, in quella stanza. Ci si può sedere, gli occhi chiusi, e ringraziare con commozione il ragazzo che nella sua breve vita sfolgorante ci ha regalato le Odi e tanti altri versi splendidi.
Vengono da soli, immortali frammenti di luce pura: «La fantasia non riesce a ingannare bene / Quanto vuole la fama, ingannevole elfo. / Addio! Addio! L’inno dolente svanisce / Oltre i prati vicini, oltre il ruscello quieto, / Sul fianco della collina; e ora è sepolto profondamente / Nelle vicine radure della valle, / È stata una visione, o un sogno a occhi aperti? / Fuggita è la musica… Sono sveglio o sto sognando?»