Il Museo Diocesano Carlo Maria Martini di Milano ha ospitato contemporaneamente la mostra personale di Lee Jeffries Portraits, L’anima oltre l’immagine (27 gennaio – 16 aprile) e la tavola della Crocifissione di Masaccio (27 febbraio – 7 maggio). Due mostre molto distanti tra loro cronologicamente e sintatticamente, ma in grado di esibire un’inattesa sintonia tematica.
Dal 27 gennaio al 16 aprile è stato possibile visitare nelle maestose stanze del Museo Diocesano a Milano la mostra Portraits. L’anima oltre l’immagine del fotografo britannico Lee Jeffries (1971): una cinquantina di immagini prevalentemente in bianco e nero che catturano i volti di un’umanità nascosta e invisibile, quella che incontriamo comminando per le strade delle grandi città europee e americane: gli homeless.
Il fotografo si avvicinò a questo tema quando, passeggiando per le vie di Londra nel 2008, si imbatté in una giovane ragazza senzatetto seduta all’ingresso di un negozio (oggi ritratta in “La ragazza nel sacco a pelo”), le scatta una fotografia, lei lo rimprovera e lo insulta, ma lui, invece di scappare, si ferma a parlare con lei, la interroga sul suo passato, cercando di comprendere la persona al di là delle apparenze.
È lo stesso fotografo ad ammettere che non si è mai trattato solo di scattare fotografie, di non aver mai voluto documentare la vita delle persone, ma piuttosto la sua arte ha a che fare con la spiritualità: si rivolge direttamente all’anima interrogandola sulle nostre emozioni:
«Luci e ombre comunicano speranza e sconforto: da un lato il senso del Paradiso, il Dio ritrovato sulla faccia degli altri, dall’altro l’Inferno, il loro, il suo, il nostro. Il filo che guida l’intera narrazione e che trabocca in numerosi riferimenti religiosi e cristiani, è, appunto, lo sguardo. Atteso e fermato come quel punto di contatto che Michelangelo Buonarroti bramava nella “Creazione di Adamo”, come se il suo cinquecentesco Giudizio Universale si fosse materializzato sui nostri marciapiedi per condurci nuovamente al vero senso dell’umanità» dice Barbara Silbe, curatrice della mostra insieme a Nadia Righi.
Alcune fotografie hanno per titolo il nome del soggetto che vi è raffigurato, e tutte presentano data e luogo in cui sono state scattate, nonché la storia che sta dietro all’immagine. Un’umanità degradata che diventa così capace di riacquistare dignità. Scrive Jeffries a proposito di Agnes incontrata a New nel 2018:
«Senza dubbio la puoi vedere a Broadway. Difficile non notarla. Abbastanza piccola, ma con scarpe così grandi che in punta si arricciano verso l’alto. Agnes. Un personaggio che sembra arrivare direttamente dalla Terra di Mezzo. Si trascinerà da un punto all’altro, andando avanti e indietro, trasportando le sue borse nere una per una nella sua nuova postazione».
La straordinarietà di questo fotografo è tutta qui: sa catturare la sostanza oltre l’apparenza, l’anima oltre l’immagine, come recita il sottotitolo della mostra milanese. «Voi tutti che passate per strada, considerate e osservate se c’è un dolore simile al mio dolore» (Lamentazioni 1, 12).
La gemma di Capodimonte
Di fronte all’umanità sofferente, come quella ritratta da Jeffries, di corpi abbandonati alla solitudine o all’indifferenza, non può non venire in mente il corpo di Cristo martoriato e abbandonato alla morte.
Ed è proprio quel corpo crocifisso, dipinto da Masaccio ai primi del Quattrocento, che nel Diocesano è stato custodito in una stanza al piano superiore: alla destra dell’Uomo sua madre, Maria, vestita di blu, con le mani raccolte in preghiera e quel volto paralizzato, incredulo, incapace di urlare al mondo il suo dolore; alla sinistra san Giovanni raccolto in sé stesso, dolente in viso, che quasi non guarda il Cristo morto ma un’altra figura, quella ai suoi piedi, straziata dal dolore, con le braccia tese verso l’alto in un gesto quasi sacerdotale: la Maddalena.
La tradizione è solita raffigurare Maria Maddalena abbracciata alla croce, intenta ad asciugare con i propri capelli i rivoli di sangue che sgorgano dalle ferite di Cristo; qui invece non tocca la croce, ma è di spalle, avvolta da una veste rosso sangue. Possiamo solo immaginare il suo urlo silenzioso, che si combina al tacito lamento delle altre due figure in compianto sul corpo abbandonato sulla croce.
Si tratta di tre modi di esprimere il dolore in cui ognuno si può immedesimare: siamo noi con le nostre diverse reazioni di fronte alla morte e alla sofferenza. Dice a proposito Sylvan Bellenger, direttore generale del Museo e Real Bosco di Capodimonte, da cui proviene l’opera:
«Se esistesse un messaggio universale, La Crocifissione di Masaccio potrebbe esserlo, un’opera che oltrepassa il limite della storia, della geografia e raggiunge l’ecumenismo di tutte le fedi nella fede cristiana».
Colpisce nelle immagini di Jeffries e nelle figure masaccesche non solo l’espressività dei volti, accentuata in entrambi dai giochi di luce, ma anche l’essenzialità della composizione: volti e corpi attorniati da un vuoto, un vuoto che è simbolo di solitudine, come è solo un senzatetto emarginato o un Dio “abbandonato” dal Padre e dagli uomini.
Eppure, nella sua rivoluzione, Masaccio riempie quel vuoto e lo fa attraverso il fondo oro. Lui, «optimo imitatore di natura, […] buono componitore e puro sanza ornato, perché solo si decte all’imitazione del vero e al rilievo delle figure» (C. Landino, 1481), ambienta la sacra raffigurazione nella finzione dell’oro. Ma questo oro viene sfondato dalle mani della Maddalena che sembrano oltrepassare la croce, andando a toccare quell’oro che non è più un limite spaziale ma quasi una prospettiva: l’oro segno del divino, dell’eterno e della Risurrezione.
Di fronte alla Croce la cultura occidentale ha visto il fallimento dell’umanità che ha condannato a morte il suo Dio, ma vi ha visto anche il riscatto, dato da Cristo all’uomo attraverso la sua Risurrezione. I tre santi che guardano il corpo morto in croce con i loro occhi sofferenti chiedono perdono per l’umanità.
Così, noi che guardiamo in faccia il dolore dell’altro causato da uomini che non comprendono, che non amano, ma che disprezzano, ci facciamo carico di quel dolore dandogli un nome e fissandolo nella storia. E quel grido silenzioso della Maddalena riecheggia nei volti dei tanti Jason, Gale, John e Susan fotografati da Jeffries. Di Michelle, una giovane donna incontrata a Londra nel 2010, il fotografo racconta: «Lei, come tante altre, è quasi invisibile nelle nostre città. È effimera, un cuore in dissolvenza che è andato alla deriva, quasi dimenticato. Se ti avvicinassi solo un po’, potresti sentirla sussurrare, io sono… Qui».