E così ci sono voluti ben diciassette anni per poter rivedere sul grande schermo Bonaparte.
Eravamo fermi a N – Io e Napoleone, del 2006, intrigante opera diretta da Paolo Virzì, con Daniel Auteuil nei panni dell’imperatore. Perché tutto questo tempo? Ho dedicato un intero libro alla drammaturgia napoleonica (Essere Napoleone, Ares 2022, pp. 312, euro 20), proprio per fissare la cifra del riuscire a “essere Napoleone” e non limitarsi semplicemente a “farlo”. Il succo è che il nostro è un personaggio troppo ingombrante. Fuori dagli innumerevoli libri di scienza storica e dal circuito della divulgazione, quando si tratta di prendere un attore e di calzargli il leggendario bicorno, con una sceneggiatura che non si riduca a didascalia, incombe inesorabile il cliché.
Anche l’ottantaseienne Ridley Scott non ha potuto resistere a tenere il nostro eroe sempre con il cappello in testa, non tanto all’aperto ma dai tavoli delle riunioni, ai salotti, alla camera da letto, quando per esempio lo vediamo in vestaglia, svegliato precipitosamente dai suoi in piena notte per sentirsi dire che la appena occupata Mosca, arde come un braciere.
L’opera è epica
Questo Napoleon resta sicuramente un’opera epica. Il linguaggio è pittorico, le inquadrature sontuose, progettate secondo il miglior canone della comprensione dello spazio-tempo da parte dello spettatore. Forme, colori, movimento, tutto d’alta scuola. Ricordate che Scott esordisce alla regia nel 1977, con I duellanti, tratto da un romanzo di Joseph Conrad, incentrato su una interminabile sfida tra due boriosi ufficiali napoleonici per motivi d’onore.
Il genuino spirito di questo film di quarantasei anni fa è passato con varie gradazioni attraverso i molti altri del regista, in particolare quelli d’ambientazione bellica, Il Gladiatore (2000), Le Crociate (2005), e in qualche modo ha trovato adesso una sorta di consuntivo, un omega ideale da connettere all’alfa del ’77.
Il problema è però che stavolta c’è Lui, che per inciso non compare nei I duellanti. L’uomo in bicorno. Il destino iscritto nello sguardo accigliato. Ripensate ai «…rai fulminei, le braccia al sen conserte» del Cinque Maggio di Manzoni. Fu vera gloria? Non aspettatevi però una risposta da questo film.
Phoenix troppo autoreferenziale
Anzi, proprio per non saper né leggere né scrivere, come si usa dire, Scott ha voluto andare sul sicuro. Ha preso un attore solido, che conosceva bene dai tempi de Il Gladiatore, in cui interpretava l’imperatore romano Commodo, poi meritatissimo premio Oscar nel 2019 per l’interpretazione di Joker, di Todd Phillips, e semplicemente gli ha dato le chiavi della macchina. Joaquin Phoenix sembra faccia tutto da solo con il suo Napoleone. Non si avverte una direzione, non si coglie la mano registica sul suo carattere. E come sempre, quando l’attore, pur bravo assai, sì, diciamo così, autogestisce, finisce per scivolare inesorabilmente nell’autocompiacimento. In questo caso senza eccessi o sovra assensi ma all’opposto in una fissità, in una maschera di gesso che anche nei momenti di concitazione resta identica a sé stessa.
A questo aggiungete che la vicenda si snoda dall’arrivo del giovane capitano Bonaparte a Parigi negli anni della Rivoluzione, a Terrore imperversante e si chiude a Sant’Elena. Phoenix è quasi cinquantenne e ha il volto e tutte le intenzioni espressive di un uomo nel pieno della maturità, risoluto e padrone del gioco. Quando il nostro eroe arrivò nella capitale era un ufficialetto di ventisei anni, còrso, che parlava a male il francese, con le pezze al sedere, i capelli lunghi ai lati tipo orecchie da cocker e magrezza da pasti saltati. Certo fece una carriera fulminea, passò da capitano a generale con una battaglia vinta, Tolone (1793) e già rivelava più di uno scorcio di quell’anima votata alla grandezza. Ma l’uomo fatto Phoenix ci fa perdere tutto questo percorso e ce lo porge già pronto, un monumento.
Kirby fuori traccia
Aggiungete che Josephine de Beauharnais aveva sei anni più di lui, molti all’epoca, anche biologicamente, e che qui risplende in Vanessa Kirby, anni trentacinque, la quale dovrebbe fare le grand dame, vissuta e gaudente, primadonna dei giochi di alcove e salotti. Solo diverso tempo dopo lei fu consapevole, in ritardo, di chi avesse veramente sposato. Fino a rimanerne vittima, innamoratissima, straziata e divorziata d’imperio, per non essere riuscita a generare un erede all’uomo del destino asceso al trono. Kirby/Josephine ce la mette tutta ma il gioco tra i due lascia la Storia e si adagia su una pur vibrante liaison, scandita con peculiare efficacia, tocca ammetterlo, dalla lettura delle loro voci recitanti una serie di lettere, più o meno immaginarie, attraverso le quali non smetteranno mai di corrispondere, anche con lei volata in cielo.
Manca l’accuratezza storica
E a proposito di abbandonare la Storia, per tutto il film non c’è che l’imbarazzo della scelta. Intendiamoci, non è un errore mortale, drammaturgicamente parlando. Il regista deve avere un punto di vista. Non si tratta di una lezione universitaria o un di podcast di Alessandro Barbero, siamo d’accordo. Tuttavia, la partita si gioca su un assioma: la logica della mancanza di verosimiglianza non va confusa con la assenza di logica. E qui lascio a voi divertirvi una volta visto il film. Vi do solo qualche spunto. Ci sta che al momento della disfatta a Waterloo, Napoleone salga a cavallo, sguaini la spada e carichi a spron battuto, sciabolando i fanti nemici. Una assurdità in sé ma è cinema. Ci sta che nella rivisitazione della battaglia di Austerlitz (1805) si allestisca uno scontro tutto cariche e contro cariche, di grande cinèsi visiva, con i cannoni celati da lenzuoloni bianchi che una volta levati faranno strage degli austro-russi. Ma siamo dalle parti de: «al mio segnale scatenate l’inferno» della battaglia ne Il Gladiatore.
I capolavori sono altri
Se volete la vera Austerlitz, recuperatela in Guerra e Pace di Tolstoj. Però i nemici che annegano negli stagni ghiacciati arrivano dritti dall’Alexandr Nevskij (1938) di Ėjzenštejn. Non ci stanno invece per esempio le Piramidi cannoneggiate nella Campagna d’Egitto, un Robespierre corpulento ed esagitato, la madre di Napoleone raccontata come una mezzana. E molte altre facce inutilmente sbagliate, vedi il maresciallo Ney, eroe tragico di Waterloo, rosso di crine come un leone e coraggioso fino all’incoscienza, qui reso da un inespressivo attore, scuro di capelli e lo sguardo miope, per il quale è stato fatto pure il casting apposta. Ci sono poi salti temporali e tagli diegetici draconiani, ricuciti da brevi informazioni fuori campo, tipo: «l’Italia si è arresa senza combattere», detta così, una sciocchezza. Le pur due ore e mezza non possono però abbracciare l’epopea e in tal senso la versione di oltre quattro ore, prevista per il solo streaming in piattaforma Apple-Tv, probabilmente aiuterà a correggere la cosa.
Povero Papa
Due parole, infine, per il povero Pio VII, il papa ostaggio/prigioniero di Napoleone. Quello di «non possiamo, non dobbiamo, non vogliamo» in lapidaria risposta alle brame francesi, al quale qui viene fatto declamare un peana dell’appena incoronato Imperatore. Fu ridotto in realtà a una comparsa, glaciale, nella grandiosa cerimonia. Ma abbiate fede. Da poco, Steven Spielberg ha annunciato di aver trovato l’accordo con la vedova di Stanley Kubrick, erede del di lui patrimonio artistico, e di aver messo in cantiere il Napoleon tratto dalla sceneggiatura che Stanley preparò con enorme sforzo progettuale alla fine degli anni Settanta, senza riuscire a farsi finanziare quello che lui stesso battezzò il più grande film di tutti i tempi. Una vera epifania per noi iniziati. Ad maiora.