La mia ferita è il mondo è tra gli ultimi “libri impossibili”, brillante progetto editoriale varato da Davide Brullo e Fabrizia Sabbatini per le Edizioni Magog. Si tratta di un illuminante viaggio nel rapporto tra un giovane Raffaele La Capria e la poesia e la vita di Dylan Thomas, indispensabile per ogni studioso del poeta gallese, essenziale per chiunque frequenti la poesia del Novecento.

Il piccolo e prezioso volume contiene alcune lettere di Dylan Thomas all’amata Pearl Kazin – conosciuta nel 1950 – e le traduzioni di La Capria per la rivista “Sud”: alcune poesie di Dylan Thomas (La forza che spingeLa crocifissioneLa luce nasce dove non brilla il soleLa memoria di Ann Jones), uno stralcio dai Cori della Rocca di T.S. Eliot, altre liriche di poeti vicini a Wystan H. Auden, Cecil Day-Lewis (Il conflitto) e Stephen Spender (Il viaggio), e dello stesso Auden (La notte cade sulla Cina Ora, straniero).

La mia ferita è il mondo raccoglie poi alcuni interventi di La Capria sulla letteratura del Novecento inglese, il saggio Aspetti della poesia inglese contemporanea e una lettura più “ravvicinata” della poesia di Dylan Thomas, Bibbia e Freud in Dylan Thomas, con precise annotazioni chiarificatrici: «Dylan Thomas si muove su una linea fortemente subiettiva» scrive ad esempio, perché «the more subjective the poem, the clearer the narrative line» (più è soggettiva la poesia, più è chiara la linea narrativa), aveva dichiarato il poeta in “New Verse” nel 1934, all’uscita della raccolta 18 Poems. Così Thomas è dunque subito agli antipodi dell’«impersonalità» di Eliot, punto di riferimento fondamentale del secolo.

La Capria ne sottolinea poi l’estro nel creare nuove parole, parole composte, sostantivi uniti all’aggettivo in modo insolito in un magma verbale e fonico – «più che il risultato egli ci offre il processo della scoperta» –, la dialettica vita-morte, l’accostamento della vita umana a quella naturale e animale: «l’universo – pianta, pietra, bestia – ha la stessa vita fisica e sessuale dell’uomo», con profonda adesione al poeta e volontà di comprenderne le dinamiche. In effetti, tradurre un poeta è quasi un tentativo di entrare per così dire nella sua mente e nel suo sguardo sul mondo.

Saggi, traduzioni e commenti sono accolti in “Sud”, la rivista letteraria fondata con altri intellettuali, tra cui Salvatore Quasimodo, che si distingue per l’intento di rinnovare la letteratura italiana e aprirla alle correnti letterarie europee e internazionali del tempo.

Raffaele La Capria è tra i primi in Italia a scrivere sulla poesia inglese del Novecento, cercando appunto di riannodare il rapporto allentatosi con la letteratura europea. Pur giovane, guarda da sempre con entusiasmo alla letteratura d’oltralpe: ha tradotto Sartre e Gide, ammira Canetti, Kavafis, Borges, Singer.

E dalle pagine di “Sud” ha inaugurato una rubrica dedicata alla letteratura straniera, che nel secondo numero porta un saggio su Cristopher Isherwood, altro componente del “gruppo di Auden”: «Sud non ha il significato di una geografia politica né tantomeno culturale; il Sud ha per noi significato di Italia, Europa, Mondo. Sentendoci meridionali ci sentiamo europei», questo il programma e il fine della rivista.

La “napoletanità” sembra infatti all’opposto di una lingua, di temi e slarghi europei. Pur avendo dato e continuando a dare grandi romanzi, è alla Francia, all’Inghilterra e all’America che La Capria – il quale vive a Roma, la capitale, dal 1950 – guarda come redattore della rivista.

La mia ferita è il mondo – con i bei commenti di Davide Brullo e Fabrizia Sabbatini – punta i riflettori sull’anno fatale, il 1950, in cui Dylan Thomas e Pearl Kazin s’incontrano: galeotte le pagine patinate di “Harper’s Bazar”, per cui lei scrive. I due si ritroveranno uniti anche due anni dopo, ricorda Fabrizia Sabbatini, nel 1952, sulle pagine della rivista “Botteghe Oscure”, Thomas con la prima versione di Under Milk Wood [Sotto il bosco di latte], Pearl con un racconto d’esordio.

Le lettere di Dylan a Pearl sono una vertigine di passione – «A volte mi sento talmente vicino a te che la terra si arresta, i mari si asciugano e attraverso il fondale posso arrivare a baciarti» – , fruscio di vuoti e tumulto – «I miei giorni sono un vespaio di rinvii e di rinuncie. Non aspetto che te» –,
tensione d’ingordigia affabulatoria: «Ti verrei incontro, con una gardenia all’occhiello, un cappello d’oro, ballando». Chiara eco da Thomas Parke D’Invilliers, «Poi mettiti il cappello d’oro, se questo le può far piacere; / se sai saltare, per lei devi saltare», i versi posti da Fitzgerald a epigrafe del Grande Gatsby.

Poi però sull’ennesima «adorata per sempre» Pearl sembra aver la meglio sulla scrittura, sull’amore imporsi l’amore per la parola: «un’ora fa ho aperto le tue lettere […] e nel silenzio della mia stanza solitaria, sopra il rumore del traffico, le ho lette fino alla loro dolce corteccia…». E come in altre liriche, la metafora vegetale tanto cara a Thomas emerge anche nella celeberrima The Force that through the Green Fuse Drives the Flower, [La forza che spinge il fiore dal gambo] (dalla raccolta 18 Poems del 1934), qui nella traduzione di La Capria: «La forza che spinge il fiore dal gambo / Spinge i miei verdi anni: quella che devasta le radici degli alberi / Mi distrugge…».

Davide Brullo traccia il viaggio in Iran di Dylan Thomas, intrapreso perché la Anglo-Iranian Oil Company gli aveva commissionato la scrittura di un docu-film sui benefici del sistema petrolifero in un paese povero.

Ma in Iran Dylan non sta bene, lontano da casa e da Pearl: il luogo non gli piace, l’indigenza in cui vivono i bambini gli ripugna, la nostalgia lo perseguita. «Sanguino di noia» scrive a Pearl, eppure, sembra che proprio laggiù abbia iniziato a scrivere Do not Go Gentle into that Good Night, [Non andartene docile in quella buona notte].

Commenta Brullo, da poeta a poeta: «Mi sembra di sentire Rimbaud. Ogni poeta vuole superare la parola – la parola è un confine, è un cancello: il poeta è dall’altra parte; gioca con le ombre cinesi e le cerbottane, ci saluta».

Per tornare al saggio dello scrittore napoletano sulla poesia inglese del Novecento, la sua ricognizione parte da Eliot, poeta ineludibile e considerato «più che un poeta addirittura un’influenza», e prosegue attraversando i Georgiani – l’antologia epocale pubblicata da Edward Marsh dal 1912 al 1922 – per arrivare ai war poets Robert Graves, Siegfried Sassoon e Wilfred Owen, che si distingue secondo La Capria per la sua concezione della pietà della guerra, il suo «cruciante amore per gli uomini».

Dopo intelligenti, opportune osservazioni su Stephen Spender e Cecil Day-Lewes, Louis MacNeice e David Gascoyne, il saggio termina con alcune pagine su Auden, centro e vertice degli anni Trenta.

E come sempre nei versi di Auden, ogni contrasto trova una sua conciliazione, ogni “ferita” è risanata. I versi citati da La Capria sono quelli finali da 1 settembre 1939, inseriti nella raccolta Another Time [Un altro tempo], e sono epilogo e speranza insieme:

 

Senza difesa sotto la notte

giace il nostro mondo;

eppure, accesi ovunque,

ironici punti di luce

lampeggiano ovunque i Giusti

si scambiano i loro messaggi:

possa io, composto come loro

di Eros e di polvere,

assediato dalla stessa

negazione e disperazione,

mostrare una fiamma affermativa.