Oppenheimer – regia di Christopher Nolan; con Cillian Murphy, Emily Blunt, Robert Downey Jr., Matt Damon, Rami Malek; 180’; Usa 2023.
All’inizio degli anni Novanta dello scorso secolo, mentre frugava in una vecchia scatola piena di foto di famiglia, la giovane fotografa Rachel Fermi ne trovò una che la fece trasalire. Si trattava di una piccola immagine sbiadita – l’unica esistente a colori – della prima esplosione nucleare della storia. «Da bambina», racconterà tempo dopo l’artista, «non sapevo molto del nonno. Soltanto da adulta ho cominciato a capire il significato del suo lavoro e come avesse radicalmente cambiato il mondo in cui era nato, e contribuito a plasmare quello in cui io vivo ora».
Il ritrovamento di quell’immagine dall’album di famiglia di Enrico Fermi innescò in Rachel una serie infinita di quesiti: «Che ci faceva quell’icona di distruzione di massa nel nostro romanzo familiare? L’aveva scattata il nonno? C’erano altre foto del Progetto Manhattan?». Le domande non finivano più… Fu l’inizio di cinque anni di ricerche, insieme all’amica e collega Esther Samra, per saperne di più sul progetto e sulla parte avuta dal nonno e dalla famiglia. Questa indagine archivistica ebbe come esito il volume Picturing the Bomb: Photographs from the secret world of the Manhattan Project (1995) che ripercorreva la storia del gigantesco programma che mise a punto e sperimentò la prima bomba atomica, attraverso tutto il materiale fotografico che era stato possibile recuperare tra la documentazione ufficiale, gli archivi privati e quelli dei laboratori.
Nello stesso periodo dell’uscita del libro, tra il 1993 e il 1995, Washington cercò di organizzare una grande mostra sulla fine della Seconda guerra mondiale dal punto di vista giapponese, ma ben presto un’ondata di polemiche si abbatté su tutti i partecipanti al progetto, che forzosamente dovette essere annullato. Qualcuno negli States aveva dei problemi con quelle immagini di distruzione e morte, anche se solo pochi anni dopo, con l’attentato al World Trade Center dell’11 settembre 2001, collassò un intero paradigma visivo e concettuale legato a come la superpotenza americana si era mostrata al mondo, una “narrazione” che aveva avuto forse il suo incipit proprio con la prima detonazione di Hiroshima se – come scrisse lo storico tedesco Jost Dülffer – erano evidenti i segni della convinzione di Truman che il monopolio della bomba sarebbe stato cruciale per la realizzazione delle idee Usa su scala globale.
La ricerca di un mondo nuovo
Un merito di Oppenheimer, scritto e diretto da Christopher Nolan, è l’aver mostrato come la decisione di usare l’atomica sul Giappone non riguardasse tanto una guerra già vinta quanto quelle ancora da combattere. «Non la temeranno finché non la capiranno e non la capiranno finché non l’avranno usata», si sente dire nel film. Che è come dire: “non la capiranno finché non l’avranno vista”. L’atto del vedere e quello del mostrare sembrano cruciali per capire un aspetto non marginale del film: i punti di svolta nella storia della civiltà, man mano che la tecnologia perfeziona gli strumenti che la riproducono, sono accompagnati da immagini spettacolari destinate a entrare nella memoria condivisa. E la storia della bomba atomica è anche la storia di alcune immagini emerse e di altre rimosse, come si è visto, figlia di quel Novecento che è lo stesso del cinema («la morte al lavoro», secondo l’icastica definizione di Jean Cocteau, mai come in questo caso appropriata), dell’immaginazione al potere e di un nuovo modo di guardare il mondo e le cose.
Oppenheimer cerca di spiegare in tre ore tutto il XX secolo nel suo balzo tecnologico, speculativo e di immaginario, attraverso le sue figure essenziali (il protagonista stesso cita Einstein, Freud, Picasso) ed è forse quindi anche un film sull’industria dello spettacolo, almeno nei frangenti in cui è possibile sovrapporre la realtà della storia alla prassi hollywoodiana: nella creazione di un enorme set (la città costruita nel deserto), per conto di un importante committente (l’esercito americano), sotto la guida di un regista geniale (lo stesso Oppenheimer), attraverso delle prove generali (il Trinity Test del 16 luglio 1945) finalizzate a una memorabile esibizione (Hiroshima e Nagasaki). Giocando con i nomi dei generi, si trattò di un’ipotesi fantascientifica, verificata in un contesto western, che culminò in un film dell’orrore.
Quanto Oppenheimer mette in risalto è decisamente più di quanto offrano di solito i film commerciali ma anche più di quanto offrano i film d’autore: nell’adattare per il grande schermo il saggio vincitore del Pulitzer American Prometheus. The Triumph and Tragedy of J. Robert Oppenheimer (2005) di Kai Bird e Martin J. Sherwin, Nolan ha assecondato la personale attitudine a scardinare le linee temporali e sfidare e ottenere così l’attenzione del pubblico, creando una struttura drammaturgica e un’esperienza visiva esaltante. In particolare è il regista, insieme al montatore, a decidere quali immagini di una storia (soprattutto come in questo caso in un film biografico o storico) siano destinate a sopravvivere e quali no e il problema della “rimozione”, se così possiamo chiamarla, si è ripresentato nelle settimane successive all’uscita del film quando in Giappone alcuni osservatori autorevoli, tra cui lo scrittore nippo-americano Brandon Shimoda, si sono detti frustrati dalla mancanza di un giudizio più netto sulla strage di civili innocenti vittime delle due esplosioni. Questo limite esiste ma ci sarebbe voluto forse un secondo film (come fece nel 2006 Clint Eastwood nel rivoluzionario dittico Flags of Our Fathers e Letters from Iwo Jima, raccontando un evento bellico dai due punti di vista contrapposti) se Oppenheimer non fosse già tre film insieme: uno sul Progetto Manhattan; un altro sull’udienza di sicurezza alla quale lo scienziato fu sottoposto negli anni Cinquanta, in pieno maccartismo, per la sua successiva (e, per il suo governo, sospetta) rinuncia alle armi nucleari; un altro ancora sul duello personale che lo oppose a Lewis Strauss, il capo della Commissione per l’Energia Atomica, che sperava di ottenere vantaggi personali infierendo su un ex “eroe di guerra” che il governo statunitense aveva già rinnegato.
Un film politico
Prima ancora che per la scelta di cosa raccontare, Oppenheimer è dunque un film politico nel senso più pieno del termine, per come mostra – lo scrisse Mauro Calamandrei recensendo nel 2005 il libro American Prometheus – non solo «come anche in un Paese di lunghissime tradizioni democratiche l’intervento governativo nell’economia e nella società possa essere straordinariamente efficace e allo stesso tempo distruttivo» ma anche come per questo Paese «le minacce peggiori alla democrazia non vengano da ex militanti di sinistra come Oppenheimer ma dai cosiddetti “veri credenti” come Strauss, che non tollerano il dissenso». Nelle interviste Nolan ha dimostrato di dare per scontata la violenza dell’eccidio nelle due città giapponesi, concentrandosi piuttosto sull’idea di quanto il film possa parlare oggi ai governi impegnati in escalation militari o agli scienziati incuranti di quanto le loro scoperte possano sfuggir loro di mano.
Oppenheimer si apre e si chiude con la stessa inquadratura, la drammatica visione dell’intero pianeta in fiamme. Come davanti a qualunque immagine ci chiediamo: chi l’ha prodotta? E chi sta guardando? «Saltò fuori», così Rachel Fermi concludeva il suo racconto, «che il nonno non aveva scattato la piccola foto del fungo atomico. L’aveva fatto Jack Aeby, un membro del gruppo di Emilio Segrè, e proprio con la macchina fotografica di Segré aveva ottenuto l’unica foto a colori dell’esplosione. Ma il nonno assistette al test della bomba al plutonio nel deserto del New Mexico […]. Affermò di non averne sentito il boato, impegnato com’era a lanciare in aria pezzetti di carta per valutare a occhio la potenza della bomba, un metodo di calcolo primitivo che risultò altrettanto accurato dei moderni strumenti installati sul sito». Ci sono immagini che hanno una indiscutibile potenza. Lo capiamo dai suoi effetti, anche se non sempre ne sentiamo il rumore.