L’apertura è memorabile: La notte è passata sul mio capo in lunghe ore di sogni / e lo svegliarsi è tenue e soffuso di dolcezza chiara che affascina / dopo la gran desolazione del sonno, gli occhi socchiusi / si aprono a poco a poco e sento il cuore che batte / nel silenzio assoluto del mattino.
Qualche verso più oltre: «l’anima è sospesa sul mondo come un trofeo visibile / splendido e rilucente di grandezza e di gloria».
Occhi che si aprono su un mondo in espansione vertiginosa, il cuore che batte, splendore e luce dell’anima. Sono la cifra di Alessandro Peregalli, poeta a un tempo «cosmico e notturno» e «adoratore del sole e del ciclo vitale», come lo definisce recentemente Daniele Piccini sul Corriere della Sera.
Un poeta appartato
Stupore, energia, timore e tremore di fronte al cosmo a alle piccolezze della nostra commedia umana che appaiono già compiuti nei primi versi che risalgono all’internamento in Svizzera durante la Seconda guerra mondiale.
Un’apertura al mondo («un brivido davanti all’abisso», per rimanere con Piccini) che ci accompagna fino alla grande maturità negli anni Ottanta del secolo scorso. Peregalli è stato un poeta appartato ma variamente interrogato dai lettori più acuti del secondo Novecento (Pasolini, Montale, Porta, Pontiggia, Solmi, solo per citarne alcuni; Maurizio Cucchi tra i più giovani).
Fedele a sé stesso lungo una parabola esistenziale inusuale per la grande borghesia intellettuale milanese, di cui Peregalli è stato figlio e cantore. Attraverso i fermenti nell’Italia distrutta dalla guerra, il rientro a Milano, il neosperimentalismo, l’unione di una vita con Joan Allen-Tuska, la “carriera modesta” e poeticamente così ricca nella banca di Mattioli in piazza della Scala; le letture onnivore, il cinema, la fotografia, la frequentazione di Joyce. E l’ultima fase in levare, con lo studio e la pratica della psicologia analitica, le intuizioni e il dettato di Jung (si rimanda a proposito all’intervento partecipe di Vittorio Lingiardi su Robinson di Repubblica), la lettura del Paradiso di Dante.
L’anima di Peregalli
Elementi che si rispecchiano puntualmente nella scrittura, un itinerario che ci viene restituito da un libro smisurato e prezioso, L’Anima. Tutte le poesie e altro (1939 – 1989) (La nave di Teseo, Milano 2023, pp. 648, € 50), da poco pubblicato dalla Nave di Teseo nel centenario della nascita del poeta (1923-1991). L’Anima unisce materiali grafici e iconografici – indimenticabili le fotografie scattate a partire dagli anni Cinquanta e qui pubblicate per la prima volta grazie alla cura e alla sensibilità quasi rabdomantica di Luca Stoppini – all’opera in versi, curata dal filosofo e figlio del poeta Roberto Peregalli e da chi scrive.
I primi testi poetici vengono dalla raccolta del 1955, il “chilometrico” Altopiano, come lo definisce Pasolini nella sua recensione su Officina (ora in Passione e Ideologia). Molte poesie, rielaborate e variamente contaminate, confluiranno ne Il Cammino, libro più volte interrotto e ripreso, prima parte del poema-trittico La cronaca: poema 1939-1982, pubblicato a cura di Roberto Peregalli e Giuseppe Pontiggia dal Saggiatore nel 2003.
Cettina Caliò, recensendo l’Anima sul Foglio, segnala come la «ricerca del senso della vicenda universale» si intrecci al «recupero delle memorie che fanno di noi ciò che siamo». Questi due movimenti, separati ma dipendenti uno dall’altro, attraversano i testi dell’Altopiano e del Cammino in uno spazio limitato da geometrie astratte, che ricordano le composizioni da austera scenografia teatrale delle fotografie che il poeta scattava negli stessi anni. Memorie e senso ricercati in una città che «in mezzo all’erba alta… è una fanciulla addormentata». Un punto infinitesimo in un universo composto da «…sfere immense metalliche brucianti nel freddo assoluto /… / nord sud est ovest zenit e nadir e angoli trigonometrici, / così mentali e schematici e assurdi».
Le parole di Montale
Montale descrisse l’Altopiano sul Corriere della Sera nel 1957 come «ricco di motivi, addirittura carico di materia», segnalando le contaminazioni prosastiche cui aprono i versi di Peregalli: ampi, irregolari e caratterizzati da una escursione metrica importante, con settenari a fianco di versi lunghi e lunghissimi, che eccedono frequentemente la ventina di sedi sillabiche. La ricchezza implicita nella contaminazione con la prosa è in effetti evidente nella Cronaca: poema bancario del 1977.
Qui il tempo è racchiuso nel cerchio magico di una giornata, tra la Milano del Parini e la Dublino di Joyce. Il Signor P. si muove a grandi passi nebbiosi in una Banca che sta «come una tomba in mezzo ad un giardino / come una dura ed asciutta pietraia». La giornata è modello di ogni giornata, la banca il luogo esemplare del mondo. Spazio di estraneità e alienazione, popolato da personaggi formidabili presi in attività incomprensibili e divisi da rivalità feroci. Ma, a fianco del Signor P., il lettore avverte la possibilità di una palingenesi, di una vita che potrebbe essere vissuta in dignità e bellezza, di una breccia nascosta nei muri che ci tengono prigionieri, che consentirebbe di riprendere «le nostre care gite in campagna / e il nostro lungo ragionare d’amore e di poesia».
«Nel 1970 m’accaddero / due fatti capitali / che diedero l’avvio a una nuova vita: / morì mia madre e io m’innamorai». Peregalli ci offre questa chiave di lettura per l’Anima, l’ultimo gruppo di poesie da lui organizzato per la pubblicazione, che uscirà a chiusura del trittico La cronaca: poema 1939-1982 nel 2003. L’Anima nasce in margine a fatti biografici, che rimangono in gran parte celati al lettore, in una riflessione sempre più serrata sul mondo e sui limiti della nostra conoscenza.
La presenza di Dio
È un canzoniere privato che si muove tra una perdita insopportabile e un amore che diviene, sulle orme del Petrarca, cammino spirituale. In cui la poesia è «irruzione di luce / nella mente cieca, arde in un attimo/ abbagliante, e subito si spegne». È quello che ci può salvare: «Saremo pellegrini e dormiremo / nelle valli fiorite e l’aria pura / sarà come d’alta montagna… finché ci vinca la stanchezza: sopra a noi ineffabile / l’ombra dell’Eterno».
Il riferimento a Dio degli ultimi versi non è casuale. Il discorso su Dio e con Dio è costante, fino alle poesie degli ultimissimi anni, in cui simboli mutevoli si muovono in spazi risonanti e vuoti. Il Dio a cui il poeta parla sembra ignorare glorie e miserie della controriforma. Richiama piuttosto il Cristo di San Paolo, come lo descrive Romano Guardini: «potenza in atto, energia creativa, luce illuminante, vita irradiante e creatrice».
San Paolo è stato l’unico degli apostoli a non vedere fisicamente Cristo, ci ricorda Guardini. Come, da Omero in poi, solo il poeta cieco vede davvero il mondo. È questa visione, improvvisa e fulminante nel buio, che i versi di Peregalli spesso ci regalano; è la sua innocenza, già riconosciuta da Sergio Solmi nelle poesie giovanili e intatta fino ai versi estremi, che ci aiuta a «rompere il cerchio incantato» che ci circonda.